Pagina 1 di 3 Colloqui
di Cultura a Salsomaggiore
in collaborazione con: Comune di Salsomaggiore- Parrocchie di San Vitale - Scipione
e Cangelasio
24 febbraio 2005
Dio è un’esperienza?
Il cognitivismo e le neuroscienze in aiuto alla fenomenologia dell’esperienza
religiosa.
Relatore: Prof. Aldo Natale Terrin (antropologo)
Introduce: Prof. Roberto Tagliaferri
1.
C’è un sospetto circa l’esperienza religiosa.
Che cosa intendiamo quando parliamo di “esperienza”: qualcosa di profondo,
di vero, di intuitivo o intendiamo soltanto un’ “increspatura”
dell’anima, un’emozione senza oggetto?
Nella nostra cultura non si è mai dato risalto all’esperienza nella
religione e nel cristianesimo. L’esperienza è “pericolosa”.
A partire dall’Illuminismo si è creato nella cultura occidentale
una dicotomia di pensiero molto rigida. Il pubblico/privato, il sociale e l’individuale,
la scienza e l’esperienza,, la religione istituzionale e l’esperienza
religiosa, il razionale e l’irrazionale.
L’esperienza religiosa è un fatto privato, di più è
un sentimento, è uno stato della mente, è un umore, un’esperienza
senza oggetto, è qualcosa che religiosamente sconfina con la mistica, con
l’irrazionale, con gli “stati alterati” di coscienza; fa parte
dell’ “esoterico”, di ciò che è nascosto, e di
cui si può dire tutto e niente, non è documentabile, non è
trascrivibile, non si può raccontare. E’ un fenomeno marginale e
irrazionale. Perciò dire che Dio è un’esperienza significa
dire sempliemente che Dio è un prodotto di un sentimento, è una
suggestione, è un “fantasma”.
L’Occidente ha privilegiato in maniera esclusiva il “positivo”,
l’ “empirico”, la realtà fattuale, l’experimentum
la logica, l’argomentazione chiara, la religione istituzionale. Non poteva
tenere in nessun conto l’esperienza religiosa che appare un’intuizione,
un sentimento, un’illuminazione, un’esperienza personale privata non
documentabile, arbitraria, non soggetta a regole.
Nella visione corrente molti ritengono che le esperienze non sono e non possono
essere oggetto di studio. In particolare, per negare il valore dell’esperienza
religiosa ci si appella a livello cognitivo al concetto di qualia riconducendo
il concetto di esperienza religiosa a tale idea sviluppatasi nell’ambito
cognitivistico. Ne parla D. Dennett, in particolare per sostenere che non abbiamo
alcuna possibilità di chiarire e di rendere ragione delle esperienze soggettive:
si tratta infatti di esperienze personali, inafferrabili. I qualia sono infatti
le qualità che noi attribuiamo ai percepiti. Ora queste qualità
- come ad esempio la risonanza del colore rosso dentro di noi - sono sicuramete
intraducibili, soggettive, non hanno realtà alcuna.
2.
Anche la Chiesa ha alimentato il sospetto.
La Chiesa non ha mai dato troppo spazio all’esperienza religiosa e alla
mistica, a Dio interior intimo meo di S. Agostino. Dovendo anzitutto proteggere
l’istituzione, ha cercato di mettere a tacere l’esperienza religiosa
perché l’esperienza può creare un pericolo per l’istituzione
infatti non è controllabile. Il potere ha bisogno di controllare ogni cosa.
Nella Chiesa si parla di “carisma” per indicare un’esperienza
forte: il carisma è l’esperienza religiosa di un leader che trova
poi modo di imporsi. E’ un grande valore riconosciuto in tutto il mondo
delle religioni, ma il carisma non è libero, tenuto a bada dall’Istituzione
perché signfica un pericolo di sfaldamento del potere, di divisione del
gruppo e di frammentarietà della dottrina.
L’ “antimodernismo” della Chiesa di Pio X agli inizi del XX
sec. non si spiega e molti non sanno che cosa sia. In una parola semplice si è
trattato dell’opposizione ferrea della Chiesa cattolica all’esperienza
religiosa e cristiana. Le idee che si stavano diffondendo in tutta Europa vennero
combattute aspramente dalla Chiesa di Roma, la quale vi aveva scorto un pericolo
per il potere della Chiesa.
Le esperienze religiose private vengono valutate attentamente e solo se ripetono
le verità ufficiali della Chiesa vengono eventualmente approvate (Lourdes,
Fatima, le lacrime della Madonna di Civitavecchia ecc.). I “miracoli”
comprovano esperienze religiose ancora se e soltanto quando sono in sintonia con
gli insegnamenti della Chiesa. L’affermazione di base sta infatti nel ritenere
che la “rivelazione è terminata” e dunque non ci possono essere
altre verità, se non si tratta di verità che confermano il già
esistente.
Alla base del Cristianesimo non vi è l’esperienza, ma le verità
cristiane rivelate custodite dalla Chiesa e con le quali occorre in ogni caso
confrontarsi.
3. Eppure le esperienze sono alla base del nostro credo.
“Dio è un’esperienza”.
Noi in realtà non crediamo perché ce lo dice la Chiesa. Le verità
della Chiesa ci interessano, ma non hanno una radice profonda nella nostra biologia.
Sentiamo d’istinto che la fede è vera, che è importante ed
è necessario credere. Si potrebbe dire che noi crediamo “nonostante”
la Chiesa. Se avessimo soltanto la testimonianza della Chiesa ci sarebbero ancora
persone che credono? Io credo che questo sarebbe molto problematico.
L’idea che intendo sviluppare in questa conversazione sta nel dimostrare
che noi crediamo perché abbiamo un’esperienza quasi “biologica”
e quasi “fisiologica” di Dio (Dio è un’esperienza) e
non tanto perché la Chiesa ci insegna a credere. La Chiesa non ci aiuta
molto, ci aiuta molto di più la struttura della nostra mente. E’
la nostra mente che è fatta per fare esperienza di Dio. E forse inconsapevolmente
la Chiesa mantiene, nonostante tutto, le sue posizioni e i fedeli continuano a
credere perché l’uomo è fatto biologicamente e “mentalmente”
per credere. Siamo in qualche modo “programmati per credere”.
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