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L'esperienza del Sacro

L’ESPERIENZA DEL SACRO 

Sakros figura nel  Lapis Niger dei Fori imperiali e risale ai primordi di Roma. Deriva dal radicale indoeuropeo sak- e significa conferire validità e realtà, ‘fare sì che qualcosa divenga reale. “Il sacro attiene perciò ai fondamenti del reale, alla struttura degli esseri e delle cose, all’Assoluto, fonda la religio[1]. Nel terzo secolo a.C. la Settanta traduce la radice ebraica qadosh con hagios, sacro. Sebbene molti studiosi tendano ad evidenziare la diversa qualità del sacro biblico, poiché saremmo in presenza di un Dio, l’Unico, o almeno il primo tra molti, un Dio personale e onnipotente che interviene nella storia e nella vita dei fedeli, bisognerebbe verificare se questi attributi siano esclusivi del Dio biblico e soprattutto bisognerebbe evidenziare i molti tratti comuni con le teofanie di molte altre tradizioni. Nell’episodio paradigmatico del Roveto ardente, riportato da Esodo 3, è difficile non cogliere le omologie con le altre religioni. Vi è una specie di sovradeterminazione, dettata da un certo etnocentrismo biblico, che ha paura di perdere la propria identità e la propria assolutezza rivelativa. Tutte le religioni hanno alla loro origine una rivelazione. La distinzione tanto celebrata in molti ambiti teologici tra sacro e santo, che rappresenterebbe il vantaggio esclusivo della rivelazione biblica, risulta alla fine un impoverimento, una riduzione del piano religioso al piano etico[2].

E’ stato Rudolf Otto agli inizi del novecento a imporre il Sacro come categoria fondamentale dell’esperienza religiosa. Nel suo fondamentale libro Das Helige tenta di accedere all’essenza del religioso con una razionalità più ampia rispetto alla ragione concettuale, che Otto chiama “irrazionale”. Non potendo oggettivare Dio, la scienza indaga le ripercussioni dell’azione del divino nei sentimenti del fedele. Ne esce un quadro in cui il Sacro è esperienza di un Totalmente altro, “al cui cospetto noi indietreggiamo in atto di irrigidita meraviglia[3]”. Esso emana potenza e che instaura nell’uomo sentimenti antitetici di gioia e di terrore. Di qui la definizione di Sacro come Mysterium fascinosum ac tremendum. I guadagni dell’analisi di Otto sono punti fermi della ricerca religionista. Primo: l’esperienza religiosa è un’esperienza specifica rispetto a qualsiasi altra, ovvero “la religione parte da se stessa”[4] e non da altro; secondo il Sacro è ciò che sta al fondo di ogni tradizione religiosa come esperienza di un totalmente altro ambiguo nella complessità di sentimenti che attiva.

Il Sacro è elementare, in quanto appartiene alle realtà di fondo del nostro essere, ma non è semplice da definire[5]. “Con il termine Sacro intendiamo dunque ciò davanti a cui il sentimento d’un uomo bennato risponde con il bisogno di inchinarsi, e d’inchinarsi come non si potrebbe davanti a nulla di soltanto terreno. E’  qualcosa di misterioso e insieme di determinato, di  straniero e insieme di intimo. Lo si percepisce al lume delle stelle, dinanzi alla vastità del cielo, ma è altra cosa dai corpi cosmici e dallo spazio; emerge dal mondo ma arriva da altrove”[6]. Il sacro si può manifestare in un avvenimento esterno, da un moto interiore dell’animo, può sorgere anche “senza movente avvertibile come l’improvvisa  coscienza d’una presenza inspiegabile, strana, ma nel medesimo tempo più intima d’ogni altra; come un soffio, una densità, un messaggio di potenza, come l’avvicinarsi di una presenza”[7]. Certamente l’oggetto Sacro è diverso da tutti gli altri  oggetti e i  sentimenti suscitati sono differenti da sentimenti corrispondenti in ambito profano. Inoltre il “valore specifico” dell’esperienza religiosa “non può essere espresso con altri contenuti d’esperienza” [8]. La qualità specifica del Sacro, lungi dal soddisfare le esigenze mondane, “ha la particolarità di distogliere dalle cose. Essa non viene dall’immediato contesto del nascere o sorgere e venir meno della finalità fisica, biologica, psicologica, come altrimenti avviene per le proprietà dell’essere, ma da altrove”[9]. L’organo dell’esperienza religiosa è difficilmente individuabile: si parla di cuore, di anima, di presentimento, di sentimento per indicare una diversa ricettività, un diverso modo di  percepire la realtà.   Il linguaggio che esprime più propriamente l’esperienza religiosa è simbolico. In una conferenza del 1959 all’Accademia di Baviera R.Guardini esprime le sue convinzioni sul linguaggio simbolico, che possiamo sintetizzare in quattro proposizioni:

·     il simbolico è il linguaggio tipico della dimensione religiosa; 
·     la “forma simbolica” è il rapporto tra un significato immediato con il significato religioso; 
·     la condizione di tale procedimento, che opera una differenza in chi parla e in  chi ascolta, è l’”appropriata improprietà”;
·     la capacità simbolica non può fare a meno di un contatto esperienziale con la realtà religiosa (Numinoso-Sacro).

Come si produce l’”appropriata improprietà” del simbolo? Guardini risponde recuperando la polarità  senso-scopo. Quell’intenzionalità che si rapporta al reale non per uno scopo, ma, come l’arte e il gioco, per cogliere il senso raggiunge la pienezza di Dio. La liturgia si muove in questo spazio linguistico ed è singolarmente connotata dall’autore come gioco. “Fare un gioco dinanzi a Dio, non creare, ma essere un’opera d’arte, questo  costituisce il nucleo più intimo della liturgia... Agire liturgicamente significa diventare, col sostegno della grazia, sotto la guida della Chiesa, vivente opera d’arte dinanzi a Dio, con nessun altro scopo se non d’essere e vivere proprio sotto lo sguardo di Dio; significa compiere la parola del Signore e diventare come bambini; rinunciando, una volta per sempre, ad essere adulti che vogliono agire sempre con finalità determinate per decidersi a giocare, come faceva Davide quando  danzava dinanzi all’Arca dell’alleanza”[10].

 Di fronte all’esperienza religiosa l’uomo può disporsi in modi differenti: la può custodire, coltivare, amare; la può disattendere; la può temere; la può riservare alla sola ragione; la può utilizzare esteticamente; la può ridurre a commedia o subordinarla ai piaceri; la può addirittura distruggere. Tuttavia quest’ultima operazione “non gli riuscirà mai del tutto, perché si tratta di un elemento fondamentale dell’esistenza umana” [11].

“Nel  problema sull’essenza dell’essere; più esattamente  nell’interrogativo su che cosa sia il fatto che io sia, esista, e attorno a me esista qualcosa, si cela uno strato religioso”[12]. Tuttavia Guardini precisa che sul “dietro” ogni esperienza umana non si può fondare la religione. “Da sola questa esperienza porta solo a una muta venerazione o al senso d’essere colmati. A sua volta, l’interrogativo soltanto intellettuale sull’origine delle cose sfocia nella risposta semplicemente scientifica o filosofica, che lascia uno spazio  vuoto”[13]. Solo quando negli accadimenti appare il “quid” irriducibile si può parlare di esperienza religiosa[14]. F. Heiler ritiene che l’esperienza religiosa sia  fondamentalmente identica in tutti i suoi stadi:  “L’esperienza religiosa basilare, ancora non differenziata, e che fa da sostrato a tutte le seguenti è la reverenza o timore sacro. Essa  compendia in sé il timore, l’orrore,  l’autoumiliazione, la meraviglia, l’amore, il desiderio e l’abbandono”[15]. Le svariate forme religiose  rimandano a un oggetto ultimo, che è trascendente e che si trova dietro e sopra tutti i fenomeni sensibili e spirituali. “Questo oggetto è il sacro, il divino che comprende tre momenti: il mistero o il numinoso, il tremendo e il fascinoso... Per l’uomo religioso questa entità sacra non è un’illusione o un prodotto della fantasia, ma è realtà, anzi ‘la realtà delle realtà’... Questa realtà si presenta allo stesso tempo come manifesta e celata, come Deus revelatus e Deus absconditus... Questo mistero può essere colto dall’uomo soltanto  in imperfetti involucri (involucra), in  similitudini, immagini (imagines) e ‘simboli’, siano questi oggetti percepibili dai sensi o idee di fantasia o concetti teologici” [16]. La religione non è un’idea di Dio, ma è un “fare”,  un obbedire. “Per sintetizzare in una breve  formula, la religione è adorazione del mistero e dedizione ad esso... Nella religione non è l’uomo che va a Dio, ma, al contrario, Dio che va all’uomo... Non è l’uomo a cercare Dio, ma è Dio che ricerca l’uomo”[17].

Mircea Eliade designa la manifestazione del sacro col termine “ierofania”, vale a dire che qualcosa di sacro ci si mostra [18]. Sulla scia di Otto, egli sottolinea la natura specifica del sacro, il quale “è sempre lo stesso atto misterioso: la manifestazione di qualcosa completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo ‘naturale’, ‘profano’... La pietra sacra, l’albero sacro non sono adorati in quanto tali; lo sono, invece, proprio per il fatto che sono ierofanie, perché “mostrano qualcosa che non è più né pietra né albero, ma il sacro, il ganz andere[19]. Il paradosso di ogni ierofania è che un oggetto qualsiasi può diventare un’altra cosa, pur rimanendo se stesso. Il sacro “equivale a potenza e, in fin dei conti, alla realtà per eccellenza. Il sacro è saturo d’essere. Potenza sacra, significa realtà, perennità ed efficacia insieme”. L’iperealtà del sacro si contrappone al profano, che è un vuoto di realtà. “L’opposizione sacro- profano si traduce spesso in un’opposizione tra reale e irreale (o pseudoreale)”.  Dal punto di vista della sua struttura l’atto di manifestazione del sacro è sempre caratterizzato da qualcosa di totalmente altro rispetto alla vita normale. Questo è molto importante per Eliade perché mostra che nella vita religiosa non c’è rottura: l’esperienza religiosa ha la stessa specificità nel tempo e nello spazio. Il sacro non si manifesta mai allo stato puro, ma sempre attraverso riti, miti, forme, oggetti, persone.

In ogni ierofania intervengono tre elementi: l’oggetto naturale, la realtà invisibile e l’oggetto mediatore rivestito di sacralità.  L’oggetto in cui si manifesta il sacro continua a mantenere le proprie caratteristiche: “una pietra sacra rimane pietra”[20] . La realtà invisibile è chiamata con diversi nomi: cielo, mondo celeste, mondo trascendentale, mondo  ultraterrestre. Il mediatore in forza  dell’irruzione del sacro diviene qualcosa di diverso dal profano.  Lo storico delle religioni non studia il sacro come realtà suprema che si rivela, ma lo considererà sotto l’aspetto della sua manifestazione. Tenta di comprendere il sacro nel contesto delle ierofanie sottomesse ai limiti di tempo e di spazio. Tuttavia Eliade non trascura di interrogarsi sulla natura del sacro, che si presenta sempre come potenza, come mana. Ora egli sostiene che il problema del mana personale o impersonale è mal posto perché va considerato in termini “ontologici”. Se il sacro si manifesta come una potenza “ganz andere”, bisogna procedere oltre e determinare la natura di questa potenza sacrale. Il sacro si pone a diversi livelli, quello più elevato è quello del cielo e degli dei uranici [21]. Così il Rig Veda (I,35,7) ci presenta il dio Varuna onniscente custode delle azioni umane: egli è potente, egli è il Grande Mago, il Signore Saggio che conosce tutto, è infallibile nei suoi giudizi. Questo dono fondamentale e universale d’un Dio creatore, onniscente e potente getta una luce molto viva sulla natura del sacro che costituisce una forza la cui sorgente è la divinità. Discutendo sull’essere supremo dei primitivi, Eliade insiste sul simbolismo uranico della trascendenza. Questo simbolismo costituisce un dono immediato della coscienza equivalente a una rivelazione. In questo dono primordiale della ierofania della trascendenza, l’homo religiosus arcaico scopre  l’Essere supremo, creatore, buono, eterno, fondatore di istituzioni e custode delle norme. Così, grazie ai suoi rapporti col cielo, dai tempi più remoti, l’uomo ha avuto la rivelazione della trascendenza e dell’onnipotenza del sacro. “Il Cielo, per il suo stesso modo d’essere, rivela la  trascendenza, la forza, l’eternità. Esiste in maniera assoluta, perché è alto, infinito, eterno, potente” [22].

Eliade scopre nell’analisi della concezione simbolica e del pensiero mitico dell’uomo primitivo l’Essere Supremo, personaggio primordiale e creatore, grazie all’approccio fenomenologico-ermeneutico. “Il simbolismo è un dato immediato della coscienza totale, vale a dire dell’uomo che scopre di essere uomo, che prende coscienza della propria posizione nell’Universo; queste scoperte primordiali sono legate al suo dramma in modo tanto organico che lo stesso simbolismo determina sia l’attività del suo subcosciente, sia le più nobili espressioni della sua vita spirituale. Insistiamo dunque su queste distinzioni: se il simbolismo e il valore religioso del Cielo non sono dedotti, in modo logico, dall’osservazione calma, obiettiva della volta celeste, non sono tuttavia prodotto esclusivo dell’affabulazione mistica e delle esperienze irrazionali religiose” [23]. Eliade ha mostrato che il sacro si rivela all’uomo religioso come una potenza trascendente che ha la sua sorgente in Dio. “Qualunque sia il contesto storico nel quale è immerso, l’homo religiosus, crede sempre che esista una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo, in questo mondo si manifesta e per ciò stesso lo santifica e lo rende reale”[24].  La funzione del sacro per Eliade è di mediatore fra la realtà trascendente e l’homo religiosus soprattutto sotto tre aspetti: il simbolo, il mito, il rito.

1) Il simbolo. 

In “Mefistofele e l’androgino” sostiene che i simboli sono suscettibili di rivelare una modalità del reale o una struttura del mondo che non sono evidenti sul piano dell’esperienza immediata. Il simbolismo religioso, colto nell’esistenza e nella vita dell’homo religiosus, ha una funzione di rivelazione. Attraverso il simbolo, il mondo parla e rivela degli aspetti del reale non direttamente accessibili. Il simbolismo è il linguaggio della ierofania perché ci permette di entrare in contatto con il sacro. I simboli religiosi che toccano le strutture della vita , rivelano una vita che trascende la dimensione naturale e umana. “Oggi si sta comprendendo una cosa di cui il XIX secolo non poteva avere nemmeno un presentimento, ovvero che il simbolo, il mito, l’immagine appartengono alla sostanza della vita spirituale, che è possibile mascherarli, mutilarli, degradarli, ma che non li si estirperà mai... Le immagini, i simboli, i miti, non sono creazioni irresponsabili della psiche; essi rispondono a una necessità ed adempiono una funzione importante: mettere a nudo le modalità più segrete dell’essere. Ne consegue che il loro studio ci permette di conoscere meglio l’uomo, l’uomo tout court, quello che non è ancora sceso a patti con le condizioni della storia. Ogni essere storico porta con sé una grande parte dell’umanità prima della Storia.

Questo dato, certo, non è mai stato dimenticato, nemmeno ai tempi più inclementi del positivismo: chi meglio di un positivista poteva sapere che l’uomo è un ‘animale’, definito e governato da istinti identici a quelli dei suoi fratelli, gli animali? Constatazione esatta, però parziale, sciava di un piano di riferimento esclusivo. Oggi si comincia a vedere che la parte anti-storica di ogni essere umano non affonda, contrariamente a quanto si pensava nel XIX secolo, nel regno animale e, in fin dei conti, nella ‘Vita’; anzi, al contrario, deriva e si innalza ben al di sopra di essa: questa parte astorica dell’essere umano porta, come una medaglia, l’impronta del ricordo di un’esistenza più ricca, più completa, quasi beatifica” [25].

2) Il mito

 Eliade ha veramente rinnovato lo studio del mito. L’approccio fenomenologico mette in luce il significato del mito. Esso è una storia vera, sacra ed esemplare, che ha un senso specifico e comporta una ripetizione, che sbocca in una tradizione. “Conoscere i miti significa apprendere il segreto dell’origine delle cose. In altri termini, si apprende non soltanto come le cose sono venute all’esistenza, ma anche come trovarle e farle riapparire quando scompaiono”[26]. Il mito fornisce all’uomo dei modelli per la sua condotta. Esso è all’origine di un comportamento umano e dona all’esistenza il suo vero senso.

L’esperienza del mito è un’esperienza del sacro perché mette l’uomo religioso a contatto col mondo soprannaturale. “Recitando i miti, si reintegra quel tempo favoloso e, di conseguenza, si diventa in un certo senso ‘contemporanei’ degli avvenimenti evocati, si partecipa della presenza degli dei o degli eroi”[27]. I miti d’origine raccontano e giustificano una situazione nuova; i miti escatologici narrano un cataclisma del passato e stabiliscono le strutture per un mondo nuovo. La fenomenologia cede il passo all’ermeneutica che interpreta i miti cosmogonici. Essi raccontano una storia sacra, un evento primordiale, quello d’una creazione. Rivelano anche il mistero sacro dell’attività creatrice degli esseri divini. Mostrano l’irruzione del sacro nel mondo e fanno vedere come questa irruzione del sacro fonda il mondo. A partire da questa creazione, il mito fissa dei modelli che l’uomo deve riprodurre nella sua vita. Eliade ha messo in luce l’intenzione significante del mito come linguaggio simbolico del sacro. Pertanto ha stigmatizzato la demitizzazione di Bultmann, almeno nell’intenzione di una trascrizione non mitico-simbolica dei miti cristiani. Soprattutto l’errore di Bultmann è di aver posto il problema della demitizzazione a livello di dottrine, mentre il mito si colloca a livello di comportamenti. 

3) Il rito

“Procedendo in un certo modo, agendo secondo certi modelli, l’uomo può sperare la rigenerazione. L’atto, il rito, è indispensabile”[28]. Il rito realizza il modello celeste sulla terra quando costruisce un tempio, quando consacra oggetti, uomini, ecc. In definitiva ogni rito ha un modello divino, un archetipo. “La ripetizione di un rituale fondato dagli Esseri divini implica  l’attualizzazione del Tempo originario, quando il rito è stato celebrato per la prima volta. E’ questa la ragione per cui un rito è efficace: esso partecipa alla pienezza del Tempo sacro, primordiale. Il rito rende presente il mito”[29]. L’effetto del rituale è di conferire una dimensione di realtà, cioè una dimensione sacrale. Anche i riti d’iniziazione, che permettono il passaggio da una condizione a un’altra, per una mutazione ontologica del soggetto e per la rivelazione della santità del mondo.

CONCLUSIONE

C’è voluto più di un secolo di dibattiti nelle scienze religioniste per arrivare alla conclusione generalmente accolta che il Sacro è un’esperienza singolare, che ha caratteristiche sue proprie, da non confondere con altre esperienze. Per molto tempo si è cercato di comprendere il religioso a partire da altro, tentando di ridurlo di volta in volta a ipostatizzazione che la società fa di se stessa (Durkheim), a pseudo-scienza (Frazer), a nevrosi ossessiva (Freud), ecc. Solo a prezzo di grandi dispute, non ancora del tutto spente, si è giunti a riconoscere l’autonomia del Sacro. Anzi, specialisti come Eliade, affermano che il Sacro, quando si manifesta, “equivale a potenza e, in fin dei conti, alla realtà per eccellenza”, di fronte al quale tutto il resto risulta depotenziato, carente d’essere. “L’opposizione sacro-profano si traduce spesso in un opposizione tra reale e irreale (o pseudoreale)” . Dinanzi al Sacro tutto il resto diviene “profano”, cioè privo di consistenza propria. Il sacro “è” la realtà e parte da se stesso.

Con il crollo della cristianità, che sorreggeva un cristianesimo di massa, molti hanno attribuito il disastro della scristianizzazione complessivamente a due cause: o alla società materialista-edonista-permissiva, o all’inefficacia storica del cristianesimo, incapace di dare risposte alle grandi sfide dell’umanità. Chi ha accettato la prima diagnosi si è chiuso in un atteggiamento di condanna del mondo moderno, ma non è poi riuscito a saldare la fede con la realtà mondana; chi ha privilegiato la seconda lettura si è buttato nella sfida storica della liberazione del mondo, col rischio di rendere superflua la salvezza religiosa. Il primo atteggiamento vive un’ipocondria del cielo e una disaffezione per la terra, il secondo ha preso sul serio la consistenza del mondo, ma mostra vistose incongruenze circa lo spessore della fede. Infatti quest’ultimo è costretto continuamente ad aggiornare le proprie strategie in funzione dei bisogni dell’uomo. Bisogni che, allorché soddisfatti, non conducono necessariamente al riconoscimento di Dio nella propria esistenza.

Questa interpretazione del cristianesimo, ha una sua plausibilità e una sua ragione storica, ma rischia di evacuare lo spessore del religioso in quanto tale. Infatti procede in modo analogo, sebbene opposto, ai maestri del sospetto, i quali, anziché dare credito al religioso, hanno tentato di capirlo a partire da altro. Come credenti dobbiamo trovare una collocazione, senza contrapposizioni, tra il “legno storto” di I.Kant, che dubita dell’esistenza di un senso per l’uomo, e l’”incedere eretti” di E.Bloch, che indica la destinazione non ancora raggiunta dall’uomo. Tra il non senso, che rende vuoto ogni impegno e il “novum” da conseguire a prezzo di molti sforzi, si tratta di riconquistare quell’atteggiamento religioso, che ha reso l’uomo “erectus”, non per ragioni esclusivamente funzionali ai propri bisogni materiali, ma per contemplare la volta celeste.

E’ possibile oggi riformulare la questione del Sacro senza dissolverlo? E’ possibile superare quel “provincialismo culturale” e raggiungere una più profonda conoscenza dell’uomo attraverso il dialogo con le altre religioni? E’ possibile riformulare la specificità dell’esperienza religiosa nella caratteristica sensibilità moderna che rifiuta la verità dogmatica ma non abbandona i sentieri dell’indizio verso l’altro? Con Eliade rispondiamo affermativamente, anzi dall’incontro tra religione e modernità pensiamo possa sortire una nuova “svolta” nella storia. “Non è escluso, sostiene M.Eliade, che le scoperte e gli ‘incontri’ resi possibili dal progresso nella storia delle religioni possano avere ripercussioni comparabili a quelle di certe famose scoperte del passato nella cultura occidentale”.



[1] J.RIES, Il sacro nella storia religiosa dell’umanità, Milano, Jaca Book, 1982.
[2] Dopo la stagione di desacralizzazione del cristianesimo con esititi fortemente socializzanti, la teologia ha avuto un ripensamento sul Sacro. P.A.Sequeri scrive: “E’ soltanto per questa mediazione del sentimento del sacro, immediatamente saputo/vissuto come insuperabile differenza e indissolubile unità, che la coscienza accoglie il kérygma, l’annuncio, la notitia Dei come coscienza di una differenza diversa da quella  intrinseca all’essere cui l’ente sempre rinvia, e come sapere di una alterità interpellante che è irriducibile alla coscienza propria”. P.A.SEQUERI, Il Dio affidabile, Saggio di teologia fondamentale, Brescia, Queriniana, 1996, p.506.
[3] R.OTTO, Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, Milano, Feltrinelli, 1966, p.36.
[4] Ivi, p.130.
[5] R.GUARDINI, Scritti filosofici, vol.2, Milano, Fratelli Fabbri, 1964, p.200.
[6] Ivi, p.201.
[7] Ivi, p.202.
[8] R. GUARDINI, Fede-religione esperienza, Brescia, Morcelliana, 1984 p.60
[9] Ivi, p.59.
[10] R.GUARDINI, Lo spirito della liturgia. I santi segni, Brescia, Morcelliana, 1980, pp.86,88.
[11] R. GUARDINI, Scritti...,  p.205.
[12] Ivi, p.66.
[13] Ivi, p.64.
[14] Cfr. Ivi, p.65.
[15] F. HEILER, Storia delle religionivol.1, Firenze, Sansoni, 1976, p.34.
[16] F. HEILER, Le religioni dell'umanità, pp.575-576.
[17] Ivi, pp.580-581.
[18] Cfr. M ELIADE, Il sacro e il profano, Torino, Boringhieri, 1973,p.14.
[19] Ivi, pp.14-15.
[20] M. ELIADE, Il sacro e il profano, p.15.
[21] Cfr. M. ELIADE, Trattato..., pp. 42-125.
[22] M. ELIADE, Il sacro e il profano, p.76.
[23] M. ELIADE, Trattato..., pp. 43-44.
[24] M. ELIADE, Il sacro e il profano, p.128.
[25] M. ELIADE, Immagini e simboli, Milano, Jaca Book, 1987, pp.15-16.
[26] M. ELIADE, Mito e realtà, Milano, Rusconi, 1974, p.19.
[27] Ivi, p.24.
[28] M. ELIADE, Trattato..., p.375.
[29] M. ELIADE, La nascita mistica, Brescia, Morcelliana, 1980, p.23.

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