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Denaro e Rito

DENARO E RITO. IL VALORE DELLA MONETA FALSA

Rivista Liturgica 2 mar/apr 1997
Il prezzo del gratuito

Il rapporto tra denaro e rito sembra ben evidenziato dal paradosso del valore della moneta falsa, dove il disvalore economico allude a un plusvalore religioso. È un esempio perfetto della singolare mediazione della liturgia, che si manifesta come un ossimoro, cioè come paradosso di ghiaccio-caldo, dove la coesistenza di doppi polari scatena il ribaltamento delle normali evidenze e colloca in uno spazio sacro.

La prospettiva di questo intervento è ispirata da alcune osservazioni di antropologia culturale e di fenomenologia del rito religioso, che evidenziano nelle società tradizionali il carattere antieconomico del denaro nel rito. Non sempre questo tratto è palese; vi sono degli esempi in cui il rito è l occasione per la circolazione di beni e di denaro con valore economico; vi sono però altrettanti esempi in cui vige lo spreco e il consumo insano di risorse con sommo disprezzo del valore economico. La situazione si complica ulteriormente nella modernità occidentale con l ingresso dell economia politica del segno. La tesi che verificheremo tenterà di cogliere il valore simbolico del denaro per l esperienza religiosa nel trapasso di paradigma economico dalla cultura tradizionale della somiglianza alla cultura moderna della differenza. Nelle società cosiddette sacrali Dio è all origine di tutto, anche dell economia e della sua eventuale monetizzazione. Lo scambio economico è parte integrante dell ordine cosmico da preservare dal caos sempre incombente. Il rito sottrae dal disordine l'economia e la rigenera sul modello dell ordine archetipale a garanzia della sopravvivenza del gruppo. Il denaro o la ricchezza in genere hanno una connessione religiosa, «una eccedenza di significante» direbbe C. Lévi-Strauss, diventando, come nell antico Israele, segno esplicito della benedizione di Dio. Tuttavia, nel rito, specialmente nei capodanni, si assiste a una caratteristica dilapidazione dei beni, irragionevole in un regime di penuria atavica di beni materiali. Si tratterà di comprendere questi improvvisi segnali di follia sperperatrice in connessione all esperienza religiosa e poi tentare un difficile raccordo con l uso odierno del denaro dominato dall economia politica del segno.

1. Il denaro nei riti delle società tradizionali

Il tema del denaro nei riti delle società tradizionali va esteso in generale ai beni economici poiché la monetizzazione dell economia è un fatto non universale. Lo scambio di merce tuttavia ha dinamiche di mercato abbastanza simili alla circolazione di moneta. Due sono i fenomeni che contrassegnano il bene economico o il denaro nel rito. Entrambi hanno a che fare con il dono, ma mentre il primo opera un omologia per cui il rito diventa luogo economico, il secondo interrompe il ciclo economico e impone una logica della gratuità attraverso lo spreco irrazionale di risorse.

Vi sono riti, come il potlatch praticato dagli indiani Kwakiutl del Nordamerica e come il prasada celebrato in occasione del compleanno di Krisna nell India settentrionale, che consumano una specie di materialismo ritualistico perché i doni agli dei non fanno che ingrassare i fedeli. Il famoso Essai sur le don di M. Mauss sottolinea che la generosità dei doni nel potlatch stimola la produttività. È una forma di investimento e di capitalizzazione perché costringe il destinatario a rifondere con gli interessi il dono ricevuto. Il potlatch «è un fenomeno economico scrive M. Mauss e si deve stimare con attenzione il valore, l importanza, le cause e gli effetti di transazioni che sono rilevanti anche se calcolati su standard europei»[1]. Così si può dire del cibo offerto a Krisna da parte della setta Vallabha Sampraday. Il cibo offerto diventa prasada, cioè una sostanza consacrata imbevuta del potere della divinità, e restituito ai fedeli perché lo consumino. Per quel cibo si verifica una vera e propria mercanzia con circolazione di denaro perché lo si vende e col ricavato si sostengono i sacerdoti, il tempio, ecc.[2]

Dai rapidi esemplificativi cenni si potrebbe concludere che l economia monetaria va d accordo con il rito o almeno che non vi è incompatibilità tra i due. Bisogna tener presente che il contesto delle società tradizionali è sacralizzante e non vi è ombra di mentalità secolarizzata. Quando si separano le sfere d esperienza, come nella tradizione biblica, l orizzonte globale di senso a cui tutto si riferisce è sempre l onnipotente Creatore. Lo stesso M. Mauss, che ha sottolineato l aspetto economico del potlatch, non ha esitato a riconoscere la valenza religiosa dello scambio di doni. «Esso ha carattere religioso, mitologico e sciamanico poiché i capi che vi partecipano sono incarnazioni di dèi e antenati di cui essi portano i nomi, dai cui spiriti essi sono posseduti e le cui danze danzano anch essi»[3]. Lo stesso dicasi della tradizione vedica: l'offerta è connessa con una percezione organica dell universo in cui uomini e dèi si sostengono a vicenda in un unione mistica ben lontana dalla nostra concezione materialistica del denaro.

Un uso economico del denaro nel rito è pure attestato nella tradizione biblica e nella storia della Chiesa, sebbene Gesù abbia contestato violentemente questa pratica con la cacciata dei venditori dal tempio. Addirittura il denaro dovuto a terzi offerto al tempio di Gerusalemme diventava Korban, offerta sacra, intangibile e fuori circuito commerciale o almeno dalle regole del gioco tra credito e debito (cf, Mc 7,11), alimentando ovviamente anche abusi. È interessante notare che il denaro nel circuito rituale assuma un valore monetario diverso. Ha sempre un prezzo e un mercato ma in quel recinto limitato sembra doversi decontaminare o avere regole diverse. Nel cristianesimo vi sono state molte stagioni circa il rapporto tra liturgia e denaro. Segnalo due momenti, documentati dall articolo di A. Catella in questo numero di rivista. Primo: fino al VI secolo il denaro fa parte dell offerta e quindi della liturgia perché non c è liturgia senza offerta. L offerta non è uno scambio economico legato al do ut des, ma uno scambio simbolico sul modello cristico. Il denaro è assunto per essere trasfigurato. Secondo: nel Lateranense IV (1215) il denaro nella liturgia è legato alla mediazione sacramentale del clero e al suffragio per i morti. La rigida regolamentazione dell uso del denaro denota il suo significato simbolico non meramente economico. La tendenza alla deregulation nell uso del denaro nel rito arriva alla totale eterogeneità. La sua eventuale presenza serve per smentire la logica del risparmio o dell accumulazione attraverso i meccanismi dello spreco e della sregolatezza. R. Caillois scrive: «L'économie, l accumulation, la mesure définissent le rytme de la vie profane, la prodigalité et l excès celui de la fête, de l intermède périodique et exaltant de vie sacrée qui la coupe et lui rend jeunesse et santé»[4]. Durante le Antisterie ateniesi si dotava ogni fedele di un otre di vino e si faceva a gara chi per primo riusciva a scolarlo. Nella festa ebraica dei Purim si distribuivano regali ed elemosine e si poteva bere fino a non più distinguere fra «Maledetto sia Aman» e «Benedetto sia Mardocheo». In Cina si accumulano vettovaglie in pezzi più alti d una collina , si scavano stagni pieni di vino sui quali potrebbero navigare barche e si potrebbe organizzare una corsa di carri sull ammasso di viveri. Ciascuno è tenuto ad abbuffarsi fino al limite del possibile, e a riempirsi come un otre pieno[5]. Due sono però gli aspetti antieconomici del rito segnalati pressoché in tutte le tradizioni religiose: il tabù da lavoro con il conseguente spreco di tempo nelle feste, l'ostentazione di ricchezze fino alla provocazione.

1.1. Il tabù del lavoro e il riposo

L'inibizione del lavoro nella festa è un carattere universale a cui non si sottrae la tradizione giudaico-cristiana. Sebbene non si possa eccepire sull antichità e sul valore della domenica per la vita della Chiesa, tuttavia solo tardivamente con Costantino è collegata al riposo sabbatico. Addirittura si comminano pene gravose per gli insolventi, come sanzionano i concili di Macon e di Narbona. Vi sono studiosi che raccomandano di scindere oggi il legame tra giorno del Signore e riposo sabbatico per ritrovare l'ispirazione autentica della domenica cristiana. W. Rordorf, un esperto di meritata fama su questi temi, afferma: «Ci si deve domandare se le Chiese che, oggi, volenti o nolenti, debbono abbandonare le antiche tradizioni dell era costantiniana , avranno anche il coraggio di liberarsi dalle catene della sintesi sabato-domenica, per riconoscere con rinnovata chiarezza che culto cristiano e astensione ufficiale dal lavoro, anche se hanno luogo nello stesso giorno, non formano necessariamente per questa ragione un unità indissolubile»[6].

Riteniamo che il tenore di questo ragionamento possa ricollegarsi al problema della demitizzazione di qualche decennio fa. Può esservi culto cristiano e domenica senza riposo sabbatico, senza festa? Reputiamo di no, come non può esservi liturgia cristiana senza riferimento al pasto pasquale ebraico. La connotazione fondamentale della domenica è certamente l eucaristia, ma quest ultima non è asettica celebrazione del Mistero; implica molti elementi simbolici di tipo rituale, tra i quali il riposo festivo. La fenomenologia della festa nelle molteplici tradizioni religiose[7] indica il tabù da lavoro come uno degli elementi essenziali. In questo modo la domenica cristiana ha ricuperato e fatto propri anche alcuni dei caratteri del sabato ebraico .[8] Dimenticare questo aspetto significa svuotare la domenica di un suo meccanismo simbolico strutturale per l'esperienza del Risorto nel memoriale eucaristico. Il passo successivo pericoloso e alla portata è ridurre il giorno del Signore alla celebrazione eucaristica che può avvenire in un qualsiasi giorno settimanale, quando le circostanze o le esigenze della produzione industriale lo permettono.

Il contesto festivo del rito ha diversi elementi che interagiscono e che si possono raccogliere attorno al riposo, capaci di creare una smobilitazione simbolica del mondo ordinario per aprire al definitivo. La proibizione di lavorare implica un esodo dall orizzonte tecnologico del lavoro, dove si vive per manipolare, dove il tempo è funzionale alla produzione, dove le persone si dispongono gerarchicamente in ruoli, dove il mondo appare come una variabile del potere umano, dove l'uomo stesso si sente signore del proprio destino. Il riposo sabbatico rovescia tutti i vettori funzionali alla sopravvivenza umana e produce uno scarto simbolico in cui appare la differenza, un modo diverso di sentire l'esistenza. Nel riposo festivo ci si accorge che il mondo gira lo stesso senza che noi interveniamo, si sente l'atto creativo di Dio che sostiene l universo, si intravvede la follia nell insana corsa all accapparramento di beni, si scopre che oltre alla logica del fare c'è quella del patire, oltre alla logica utilitaristica c'è la gratuità.

Il giorno del Signore è il settimo giorno della creazione in cui Dio si riposò, è il primo giorno della settimana in cui Gesù è risorto, è l'ottavo giorno dell'eschaton, «pregustazione e pegno del riposo vero, ultimo, eterno»[9]. Il riposo, lungi dall essere una sopravvivenza veterotestamentaria da espellere, o un orpello costantiniano, è il simbolismo del regno definitivo. La lettera agli Ebrei parla della salvezza in termini di riposo sabbatico e raccomanda l'obbedienza della fede per non rimanerne esclusi (cf. Eb 3,18-19; 4,1-11).

1.2. L'ostentazione della ricchezza

Un altro elemento che introduce il carattere antieconomico del denaro nel rito è l'ostentazione della ricchezza fino alla provocazione. Non è ancora del tutto esaurita la stagione pauperista per cui le ricchezze artistico-architettoniche della Chiesa erano la visibilizzazione della sua connivenza con il potere temporale dei ricchi contro la scelta preferenziale dei poveri dettata dal vangelo. La denuncia potrebbe valere, ma sbaglia bersaglio quando è corroborata dalla critica ai tesori della Chiesa. La Chiesa ha inestimabili tesori d'arte, che però non valgono nulla perché non dovrebbero avere valore commerciale. Un edificio sacro, una reliquia, un arredo non è spendibile e non può immettersi nel circuito commerciale. Gli abusi, che pure esistono, erano considerati sacrilegio o simonia. La disciplina giuridica di una volta era assai più restrittiva in quest'ambito. La riforma liturgica, che ha modificato molti arredi, non ha calcato al mano sulla non commerciabilità delle cose sacre. È rimasta l'esortazione di Sacrosanctum concilium 126: «Gli Ordinari vigilino in maniera speciale a che la sacra suppellettile o le opere preziose, che sono ornamento della casa di Dio, non vengano alienate o disperse», a cui corrisponde il canone 1190 del Codice di diritto canonico che recita: «Sacras reliquias vendere nefas est».

Perché la ricchezza senza poter essere ricchi? La Sacrosanctum concilium spiega che la dignità dell arte sacra è legata alla relazione che essa intrattiene con «l infinita bellezza divina». L arte non ha nessun altro fine se non quello di indirizzare le menti degli uomini a Dio (n. 122). Il materiale prezioso come la primizia del gregge e del raccolto allude alla munificenza, alla bontà e alla bellezza di Dio. L'oro ricorda la risurrezione sia in Oriente che in Occidente.

L'ultimo episodio significativo che ribadisce il carattere antieconomico del rito si riferisce all'edizione italiana del primo Evangeliario moderno approvato dalla Conferenza episcopale italiana il 25 marzo 1987. Andando contro l'imperversante pauperismo nell odierna stagione ecclesiale l allora direttore dell Ufficio liturgico nazionale, monsignor M. Giannotti, scriveva nella prefazione: «Questa cura e questa devozione, indipendentemente dalla fede coscientemente professata da ciascuno di quanti hanno contribuito alla realizzazione, esprimono al pari del gesto di Maria di Betania che sparse trecento denari di nardo purissimo per ungere il corpo di Gesù, il desiderio ardente che il Cristo resti vivo anche nel nostro tempo con la sua parola di vita eterna, di cui nulla è più prezioso per gli uomini, pellegrini di speranza»[10].

Nella realizzazione dell opera, continua monsignor Giannotti, non si è badato a spese, con tecniche e materiali del nostro tempo, con la collaborazione di centinaia tra studiosi, artisti e artigiani da un capo all altro del paese per un intero decennio. I criteri di fondo che hanno ispirato l impresa sembrano correre tra la prodigalità e la gratuità. I venti maggiori artisti contemporanei, che si sono cimentati nella parte figurativa e decorativa, non hanno ricevuto denaro; hanno lavorato gratis dopo un impegnativo corso di formazione. La dimensione antieconomica dell Evangeliario moderno è stata perseguita fino alla fine sottraendolo dal circuito della distribuzione mercantile e dal collezionismo. La richiesta dell opera deve infatti essere inoltrata dagli uffici liturgici diocesani essendo il libro ad esclusivo uso liturgico. Abbiamo citato solo l'ultimo esempio di vasta portata nella gamma illimitata che la tradizione ci offre.

La continuità nel perseguire nel rito una logica antieconomica invoca un criterio ermeneutico per raccogliere l'intenzionalità fondamentale. Nel rito si verifica una specie di falsificazione della moneta per sfuggire al criterio economico e attivare l esperienza del dono.


2. Il valore della moneta falsa

Derrida ha scritto un saggio a commento del racconto di Baudelaire intitolato: La moneta falsa. Egli contrappone la logica del dono alla logica del contro-dono. Il dono è la follia di cercare l impossibile, di cercare mezzodì alle quattordici; non solo non ammette contro-dono ma richiede l oblio sia di chi lo fa, sia di chi lo riceve. Non lo si può neppure descrivere perché lo si catturerebbe in una logica che non è la sua. Il dono è come una pipata di tabacco, va in fumo, non sopporta obblighi o restituzione di favori. Secondo Derrida, M. Mauss fallisce perché nel Saggio sul dono cancella il paradosso e dunque lo stesso dono; lo rende visibile e perciò lo annulla. «Un dono atteso, moderato, misurato e misurabile, un dono proporzionato al beneficio o all effetto che si dà per scontato, un dono ragionevole (quella equa combinazione di realismo e di idealismo elogiata da Mauss) non sarebbe più un dono, tutt'al più un rimborso a credito, l economia ristretta di una differenza, di un temporeggiamento calcolabile»[11]. Il dono è alea, fortuito, sorpresa, al di là del suo orizzonte di anticipazione, incondizionato, irrompente, immotivato, senza morale. Il dono è un evento impossibile, dunque utopico, irrazionale, senza tempo; non è l effetto di niente, non obbedisce a niente. «Il dono, se ce n'è, non appartiene alla ragion pratica. Esso dovrebbe restare estraneo alla morale, alla volontà, forse anche alla libertà, almeno a quella libertà che viene associata alla volontà di un soggetto. Esso dovrebbe restare estraneo alla legge e al bisogna di questa ragione pratica. Dovrebbe oltrepassare il dovere stesso: dovere al di là del dovere. Se si dona perché bisogna donare, non si dona più»[12]. Corre sul paradosso tra volontario e involontario: non c è dono senza intenzionalità di donare; d'altra parte l'intenzionalità trattiene il dono dal dispendio e instaura il calcolo.

«Per non aver presa sull'altro, la sorpresa del dono puro dovrebbe avere la generosità di non donare niente che sorprenda e che appaia come dono, niente che si presenti come presente, niente che sia; essa dovrebbe essere dunque abbastanza sorprendente e fatta, dall inizio alla fine, di una sorpresa su cui non esiste nemmeno il problema di ritornare, di una sorpresa dunque abbastanza sorprendente per farsi dimenticare senza indugio»[13].

La stessa elemosina rischia di sottrarsi al dono quando è regolata da un obbligazione morale o da un istituzione ecclesiale. Forse bisognerebbe usare moneta falsa perché vi sia dono sottratto dal mercato e dal contro-dono.

«Si può donare solo nella misura dell incalcolabile, e dunque solo un ipotesi di moneta falsa renderebbe possibile il dono. Non si dona mai moneta vera, cioè una moneta di cui si presume di poter calcolare gli effetti, sulla quale si può contare, e si possono raccontare in anticipo gli eventi che, a partire da essa, risultano scontati»[14].

L interruzione nel rito dell uso economico del denaro tenta di instaurare la logica del dono, che nella sua indeducibilità e gratuità offre spazio al mistero della grazia di Dio. Per evitare lo scambio del do ut des e far apparire l unilateralità del dono di Dio, il rito interdice il contro-dono della contabilità economica. Lo spreco, il riposo festivo, la perdita di tempo attivano la sconnessura simbolica che immette nell ordine della grazia. Questo è il valore della moneta falsa, anche se siamo consapevoli che è assurdo parlare di valore nel dono. Ci domandiamo a questo punto qual'è la possibilità di linguaggio di questi meccanismi simbolici nel nostro mondo moderno dominato dall economia politica del segno. Mauss avverte che il principio dello scambio-dono vale per le società che non sono ancora pervenute al contratto individuale puro, al mercato in cui circola il denaro, alla vendita propriamente detta e, soprattutto, alla nozione del prezzo, calcolato in moneta di cui è determinato il peso e il titolo[15].

3. L economia politica del segno e la verità della moneta falsa

Nel mondo consumistico si sarebbe attuato, secondo J. Baudrillard, un trapasso dallo scambio simbolico all'economia del segno. Non vi sarebbero più neppure le cose che hanno un valore sentimentale, come Mauss segnalava cinquant anni prima[16]. Nello scambio simbolico l'oggetto, per esempio il denaro o la merce, non ha un autonomia in se stesso perché non lo si può separare dalla relazione tra le persone che lo scambiano. Invece nell economia del segno l oggetto non trae più il significato dalla relazione tra le persone, ma dalla relazione differenziale ad altri segni. Per esempio, la fede nuziale non dice più il rapporto di fedeltà tra gli sposi; piuttosto è un segno nei confronti degli altri. La si può cambiare ogni anno, rientra nel campo degli accessori, diventa una costellazione della moda, un oggetto di consumo[17]. L economia politica del segno è caratterizzata dal consumismo, che induce sempre nuovi e incontrollabili bisogni non per il piacere della persona ma per omologare al sistema. La passione del codice regola contemporaneamente soggetti e oggetti manipolando la coscienza, non più alienata nelle sovrastrutture secondo il superato modulo marxista, nella generalizzazione di un codice strutturale. La merce diventa feticcio perché non ha più valore d'uso o valore intrinseco, ma del sistema. Sempre più ampi settori dall'economia all'arte, dalla sessualità al tempo libero diventano moduli feticistici.

Il denaro, in questo quadro, diventa l'analogato principale della feticizzazione del mondo. Ciò che affascina nel denaro non è la sua materialità e neanche l'equivalente di una forza lavoro o di una certa virtualità per acquisire certi beni, ma la sua sistematicità di poter sostituire tutti i valori, grazie alla loro astrazione definitiva. Col denaro si ottiene davvero tutto perché sintesi di un sistema di differenze in cui tutto può essere sostituito[18]. Il denaro nella società dei consumi satura la differenza; anche Dio si può comprare.

Qui sta la difficoltà nel raccordare la tradizione con la nostra sensibilità. Non si può trattare il denaro come se fossimo in una cultura sacrale perché esso oggi elimina lo scambio simbolico e la sporgenza sull alterità di Dio. Si tratterà di raccogliere lo smarrimento che si avverte ormai palesemente nelle nostre società avanzate per riproporre la logica simbolica della gratuità del rito. L obiezione recente contro i riti perché non servono a niente diventa oggi la loro forza perché nei riti si sfugge alla castrazione del sistema di omologazione binaria e si apre la casella vuota dello scarto simbolico allusivi di una differenza radicale non sostituibile da altro. La festa rituale spreca, dissipa, restituisce, riceve per sfuggire alla logica del valore e instaurare l ordine della gratuità. «In base a una controeconomia misteriosa del rifiuto di vincere, ciò che assicura in ultima istanza il soggetto nel suo essere è questa viva e fondamentale degenerazione del valore, questa latente violenza contro il principio di identità e di equivalenza»[19]. A ben guardare nel rito la violenza non è latente ma patente: nulla serve in senso stretto e inoltre si verifica l assurdo che si consumi anche quello che potrebbe servire perché Dio non si compra e non si vende. «Nello scambio simbolico (nel rito diciamo noi), l'oggetto (Dio diciamo noi), da valore pieno qual era, ridiventa quel nulla , rien (la res latina, ambivalenza del termine), quel qualcosa che, per il fatto di essere dato e reso, viene annullato in quanto tale, e indica, con la sua presenza-assenza, lo scarto della relazione. Questo oggetto, questa res nulla non ha valore d uso, e non serve, in senso stretto, a nulla»[20]. Il rito, la festa, sprecando e dilapidando risorse, ci strappano dall inferno della feticizzazione del mondo e ci lanciano nel nulla di umano dell alterità di Dio.

4. Conclusione

Che ne è del denaro nel rito cristiano dell'assemblea domenicale o in qualsivoglia altra mediazione rituale della liturgia, nel quadro culturale dell economia del segno? Dopo quello che abbiamo tentato di dire ci esporremo a dare qualche criterio per la celebrazione. Saranno criteri un po apodittici e scomodi ma col vantaggio di non barattare il prezzo almeno in questo caso.

- Il rito è sul versante opposto del denaro, perciò è contraddittorio connettere uno stipex alla celebrazione di un sacramento.

- Se mai vi fosse presenza di denaro nel rito, esso dev'essere dilapidato e non deve servire a nessuna campagna umanitaria o ecclesiale, né per i mass media, né per il sostentamento del clero, né per nessun altro interesse.

- Anche quando fosse offerto in elemosina per i poveri, il denaro dovrebbe perdere il suo carattere economico di contro-dono e assumere in qualche modo il valore paradossale della moneta falsa se vuole introdurre nel mistero religioso della gratuità dell'amore di Dio e non smarrirsi nella presunzione farisaica del sentirsi a posto secondo la legge. Solo allora l elemosina sfuggirà alla logica economica e sociologica della giustizia umana per aprire uno spazio all esperienza della grazia.



[1] M. Mauss, Essai sur le don, in «L année sociologique» 1 (1923-1924) 36 (tr. it.: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Idem, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 1991, pp. 153-292.
[2] Cf. C.S.J. White, Dono, in Enciclopedia delle religioni, vol. 2: Il rito. Oggetti, atti, cerimonie, Marzorati-Jaca Book, Milano 1994, p. 195.
[3] M. Mauss, Essai sur le don, cit., p. 34.
[4] R. Caillois, L homme et le Sacré, Leroux-Presses Universitaires de France, Paris 1939, p. 119.
[5] ivi, p. 118.
[6]W. Rordorf, Sabato e domenica nella Chiesa antica, Società Editrice Internazionale, Torino 1979, (Traditio christiana, 2), p. XX.
[7]R. Tagliaferri, Il senso e la qualità della festa per l uomo moderno, in «Ambrosius» 66/4 (1990) 389-408.
[8] Cei, Il giorno del Signore, n. 4.
[9] ivi, n. 20.
[10] M. Giannotti, Prefazione, in Haec sunt verba sancta. Evangeliario delle Chiese d Italia. Introduzione e indici, Fratelli Accetta Editori, Palermo 1989, p. 6.
[11] J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 147.
[12] ivi, pp. 156-157.
[13] ivi, pp. 147-148.
[14] ivi, p. 158.
[15] M. Mauss, Saggio sul dono, cit., p. 239.
[16] ivi, p. 269.
[17] Cf. J. Baudrillard, Per una critica della economia politica del segno, Gabriele Mazzotta editore, Milano 19782, pp. 54-57.
[18] ivi, pp. 90-91.
[19] ivi, p. 227.
[20] ivi, p. 232.
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