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Luce e spazio architettonico
La comunicazione visiva dello spazio sacro nella liturgia
in: SIA LA LUCE - Vetrate del duomo di Salsomaggiore di padre Costantino Ruggeri

Costruire una chiesa significa riunire, affidarsi all’occhio e alla mano come corpo, cioè alla luce; alla forma e alla materia in dialogo tra loro.
(Rudolf Schwarz)



La connessione architettura e luce è così ovvio che sembra impossibile parlare di un edificio senza parlare di luce. Essa è una caratteristica che innerva la progettualità architettonica ed è forse il segreto più semplice e più efficace della magia estetica di alcuni luoghi.
Il premio internazionale di architettura sacra della Fondazione Frate Sole di Pavia nella prima edizione del 1996 è andato all’architetto nipponico Tadao Ando per la cappella sul monte Rokko a Kome, per la cappella sull’acqua a Tomamu e per la chiesa della luce a Ibaraki. Sulla motivazione del premio tra l’altro si legge: "L’emozione poetica che distingue le opere di Tadao Ando, raggiunge un’alta comunicazione della presenza dello spirito di Dio, attraverso il parsimonioso e sapiente uso dei rapporti tra spazio, superfici e luci".
L’interno della chiesa di Ibaraki, come dice lo stesso progettista, è vera tenebra, nella quale vibra una croce di luce. Questo è tutto ciò che c’è.

Gli esempi di questo stretto connubio tra edificio sacro e luce si potrebbero moltiplicare come nel caso di Notre-Dame-du-Haute a Ronchamp di Le Corbusier, oppure la cappella interconfessionale MIT a Cambridge nel Massachusetts di Eero Saarinen, oppure S.Franco a Francavilla a Mare di Ludovico Quaroni, oppure ancora la chiesa di Imatra, opera di Alvar Aalto. Ciononostante spesso si lascia questo tema così centrale ai margini per l’evidente difficoltà in fase progettuale di rendere adeguatamente una dimensione esperibile solo ad opera completata.
Nessun plastico riuscirà mai a risolvere il problema, nessuna simulazione al computer renderà appieno le vibrazioni del sole nelle diverse ore del giorno, tuttavia sembra urgente rimettere al centro della progettualità architettonica la dinamica della luce con una maggiore consapevolezza della complessità di questo tema. Intanto bisognerà dare atto sul piano linguistico e conoscitivo della svolta tra pensiero astratto e pensiero visivo.
Si procederà sul versante filosofico a considerare la visione originariamente offerente di stampo husserliano all’origine della riflessione sulla verità, come aletheia, come luminoso concedersi del mistero dell’essere, come radura nel folto del bosco. Si focalizzerà il discorso sul versante dello spazio degli edifici sacri, definito nella sua essenza più intima come modulazione iniziatica della luce nel gioco chiaroscurale della struttura architettonica. Accentueremo la dinamica iniziatica negli elementi più tipici come le finestre, le vetrate e la cupola. Ci soffermeremo su un punto nevralgico e delicatissimo riguardante l’illuminazione artificiale, per concludere con alcuni spunti teologici sul simbolismo dello spazio sacro nella liturgia, che permette una percezione dell’essere-nel-mondo come disabitazione. Va sottolineato che in teologia vi è scarsa bibliografia su questi problemi, che sembrano marginali rispetto ai grandi temi, invece i linguaggi del Sacro si dimostrano sempre più decisivi in ordine all’atto di fede .

1. Il pensiero visivo
Forse la svolta epistemologica più gravida di conseguenze nel nostro tempo riguarda la considerazione dei linguaggi non-verbali, che non sono semplici materiali sensoriali a cui si applica la ragione ma vere e proprie forme del pensiero. Nel paradigma classico di Aristotele la vista è una immediatezza conoscitiva della differenza (Met. I, 980 a 24-27), tanto pericolosa che deve intervenire il sapere filosofico (Met. II, 993 b 9-11). Se nel pensiero arcaico l’eidolon, da orao, da cui idea, risolve la tensione tra identità e differenza nell’aldilà, nel pensiero platonico la differenza non reca più il segno dell’assenza, ma segna l’irreale, il fittizio, il non essere realmente irreale (ouk on ouk ontôs estin ontôs) (Sof. 240 b 11).
Il gioco del Medesimo e dell’Altro, secondo la raffinata esegesi di A.Tagliapietra, invece di significare l’irruzione del soprannaturale nel mondo umano, dell’invisibile nel visibile, giunge a circoscrivere, tra l’essere e il non essere, tra il vero e il falso, lo spazio del fittizio e dell’illusorio.
Prima che la filosofia rigettasse il pregiudizio verso i sensi c’è voluto molto tempo con le nuove acquisizioni della biologia evoluzionista, della psicologia e della linguistica, che hanno portato a concludere che percepire visivamente è pensare visivamente.
Quali sono dunque le caratteristiche salienti del pensiero visivo? Le caratteristiche sono legate ad alcuni meccanismi come la visione selettiva, la fissazione, il discernimento in profondità. La selettività attiva riguarda i mutamenti nell’ambiente, per cui una cosa che compare o scompare, che cambia di colore o di intensità di luce o di dimensione altera la condizione dell’osservatore: un nemico, che si accosta, un’opportunità che sfugge, un segnale cui obbedire. Se uno stimolo investe senza tregua, non c’è reazione. Un colore costante o una stessa luce solare diventano irrilevanti per la coscienza, come accade per un rumore costante o per un odore costante.
Quando si è costretti a guardare qualcosa è necessario alterarla variando il raggruppamento delle sue parti oppure fissare particolari diversi con movimenti di scansione. Tenere lo sguardo puntato su una tinta finisce per scolorirla. L’esplorazione selettiva è data dalla mobilità degli occhi, amplificata dai movimenti del capo.
Oggi si ritiene che la retina informi il cervello sui colori e sulle forme non con l’infinita gamma di sfumature, ma con pochi tipi di trasmettitori dei colori base. La retina dell’occhio della rana contiene almeno quattro tipi di recettori che reagiscono a certi stimoli e rimano ciechi di fronte ad altri; così può succedere che la rana, non avendo recettori attrezzati per l’immobilità, muoia di fame alla presenza di mosche morte che sarebbero un ottimo cibo se viste in movimento. Tale innata selettività limita lo spreco di sforzi e soprattutto rende le reazioni più rapide e sicure con risposte standardizzate dette ?effettori? . Il progetto architettonico è la connessione con la selettività attiva per gestire i mutamenti nell’ambiente, tenendo conto che i recettori umani sono sensibili solo a certi stimoli e che l’attenzione è garantita solo da una grande vibrazione della luce e non dalla sua immobilità continua di flusso.
Altro meccanismo fondamentale del pensiero visivo è la fissazione, solo parzialmente volontaria, per cui la nettezza dell’immagine decade ad 1/5 per uno spostamento di soli 10° dall’asse di fissazione. La ristrettezza della sensibilità retinica porta l’occhio ad isolare una zona particolare lasciando sullo sfondo sfuocato il resto. L’attenzione su una cosa particolare viene dallo stimolo forte che attrae l’attenzione come una luce forte. La risposta è dominata dallo stimolo più che dalla volontà dell’osservatore, come le piante che si voltano dove più intensa è la luce. La fissazione oculare avviene per una specie di aggiustamento oculare fra il centro interno e il centro esterno che penetra come un intruso e produce disturbo.
Un terzo meccanismo visivo è il discernimento in profondità. Il vantaggio della messa a fuoco di una zona nella visione stereometrica è la possibilità di puntare precisamente un obiettivo, però lascia lo sfondo annebbiato. Così la distanza dell’oggetto è condizione della sua visibilità e la conoscenza della scala diviene importante per stabilire il grado di pertinenza della sensazione.
La teoria classica dell’immagine sosteneva che nella visione il mondo fisico penetrasse ridotto nella pupilla, oggi sappiamo che noi percepiamo un equivalente del mondo, cioè una forma all’origine della formazione dei concetti. Mentre l’immagine ottica proiettata sulla retina è una registrazione meccanicamente completa del suo corrispondente fisico, il corrispondente percettivo visivo invece registra gli elementi strutturali, o forme, con qualche approssimazione.
Nell’arte pittorica scopriamo alcuni meccanismi dell’organizzazione visiva, quando l’artista seleziona e rimonta per esempio un paesaggio secondo un ordine da lui scoperto e mai visto prima. L’elaborazione dell’immagine è processo lungo temporalmente, che abbisogna di molte riorganizzazioni spaziali. L’architettura è una della riorganizzazioni spaziali della luce e dell’immagine che permette una guardata più profonda rispetto all’abituale campo visivo sovraccarico, pieno di rumori e incapace di mettere a fuoco una data esperienza del mondo. Prima di dedicarci al vedere architettonico, insistiamo ancora un poco sul versante epistemologico per sottolineare i guadagni che la conoscenza come percezione visiva ha portato nella nostra cultura.

2. La visione originariamente offerente e la verità come Lichtung
Secondo E.Husserl le mere scienze di fatti di stampo razionalistico creano meri uomini di fatto, se non si introduce l’atteggiamento fenomenologico di lasciar apparire le cose come si danno nei termini in cui si danno. L’ideazione è visione coscienziale del mondo della vita, è visione originariamente offerente. Ogni possibile oggetto, in termini logici ‘ogni soggetto di possibili predicati veri’, ha appunto le sue maniere di presentarsi ad uno sguardo capace di rappresentarlo, di vederlo, di coglierlo nell’originale, prima di ogni pensiero predicativo.
Se dunque la visione dell’essenza è visione in senso pregnante, e non semplice e vaga rappresentazione, essa è visione originalmente offerente, capace di afferrare l’essenza in carne ed ossa. Prima di ogni teoria vi è un antipredicativo, un originario della coscienza che non è concettuale ma è visione intenzionale, percezione sensibile del corpo, che produce una praktognosia, una forma del pensiero originale e forse originaria.
L’illuminazione è un riflesso che permette di vedere ma non è esso stesso veduto. Il riflesso non è visto per se stesso; è visto solo con la coda dell’occhio; non è il mediatore della nostra percezione, ma è la condizione del vedere. Noi percepiamo in base alla luce, allo stesso modo in cui nella comunicazione verbale pensiamo in base all’altro.
Su questi presupposti filosofici integranti molti risultati delle scienze umane si è sviluppata una riflessione della verità come visione, come disvelamento, come aletheia, dove è decisivo il paradosso di visione e di oscurità. La verità è condizione del conoscere senza essere conosciuta; essa sarebbe quella visione in cui il vero centro si sottrae allo sguardo perché altrimenti gli occhi ne rimarrebbero abbacinati. Incontriamo qui il tormentone di M.Heidegger per cui la verità, nella sua essenza stessa, è non verità, che è come dire husserlianamente che l’illuminazione è nella modalità del nascondimento perché appunto lo sguardo non può puntare direttamente la luce senza rimanerne folgorato.
L’illuminazione è la Lichtung, la radura in mezzo all’oscura abetaia. Questo Centro aperto non è quindi circondato dall’ente; al contrario, è questo Centro che - come il nulla, noto a mala pena - circonda ogni ente. Anche nella Bibbia c’è la chiara testimonianza del valore rivelativo della luce. Nel primo giorno della creazione Dio separò la luce dalle tenebre e si può dire che quel discrimine divenne la metafora originaria del nascere e del morire, della verità e dell’errore, della gioia e della paura, del bene e del male. Nel prologo di S.Giovanni leggiamo: In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini, la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta (Gv 1,4-5). E ancora: Nessuno ha mai visto Dio, l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, lo ha rivelato (1,18).

3. Architettura e luce
L’architettura come la pittura è un’organizzazione spaziale della luce, è modulazione della luce che offre allo sguardo una messa a fuoco particolare su alcuni elementi per non lasciarsi depistare dal rumore dei molti vettori del campo ottico. L’architettura è una palpebra artificiale, è un marchingegno per convogliare l’attenzione e la conoscenza in una qualche direzione.
Non si può parlare di architettura senza coinvolgere la luce, perché l’architettura è la gestione spaziale tridimensionale della luce. Il lavoro degli architetti è modulare la luce nello spazio per ottenere determinati stati d’animo o esperienze. La modulazione è una sorta di vibrazione di chiarore e di oscurità. E’ il tratto fondamentale che l’architettura gestisce come un dosatore artificiale del continuo passaggio dall’ombra delle masse edilizie, che catturano e criptano la luce, alla chiarità di una luce filtrante, alterata e restituita da un incessante gioco di riverberi e di chiaroscuri.
Questo gioco di vedere e non vedere, di manifesto e di occultato è il meccanismo di qualsiasi significazione veritativa del linguaggio umano, di cui il codice ottico è parte rilevante. L’architettura è linguaggio pragmatico in quanto è esperienza semiogenetica, ovvero disseminazione semantica non per concetti astratti ma per "praktognosia".
Chiaro e scuro sono i ritmi della simbolizzazione per accedere a significati nuovi: appena si accende un significato nella coscienza, se non vuole ridursi al livello istintuale delle risposte meccaniche, previste e sempre identiche, deve accettare lo scompiglio dell’ottenebramento per rigenerarsi nuovo in una diversa illuminazione, in un diverso contesto che allarga i confini della conoscenza. La creatività umana si esprime nel doppio movimento heideggeriano del nascondimento nel buio e dell’affioramento alla luce.
La simbolizzazione del codice visivo trova nell’architettura dello spazio sacro un ambito di grande interesse e di nobili tradizioni. Infatti i linguaggi del sacro hanno sempre rivendicato questo spessore simbolico anche a scapito di valori più funzionali alle esigenze del gruppo. La crisi razionalistica moderna dei linguaggi simbolici e mitici ha contaminato anche l’architettura di chiese, ma oggi riemerge con molta forza l’esigenza di approfondire i linguaggi, che S.Langer chiama presentazionali. Essi sono i linguaggi non-verbali, come il codice ottico, screditati dalla riflessione classica come ingannevoli e che invece mantengono la genuinità del contatto immediato col mondo.
Le loro procedure, sempre secondo la Langer, farebbero ridere anche un gatto, se non contenessero il segreto di un disciplinato ripasso degli atteggiamenti giusti, cioè di quei sentimenti primi e ultimi che sono alfine il mistero dell’uomo a se medesimo.
L’architettura degli spazi sacri è un linguaggio presentazionale teso a mettere il fedele a contatto con la divinità, come si evince dall’episodio di Genesi quando Giacobbe, involontariamente addormentatosi in un maqom su una massebah, ebbe l’esperienza teofanica. Il santuario è scala al cielo attivando molteplici significati simbolici: costruisce comunione con Dio e con gli uomini, elimina le forze demoniache e negative, fa balenare il gioioso, il bello e il gratuito sull’angoscia, sulla preoccupazione, sull’utile e sul funzionale, permette il passaggio iniziatico per la rinascita, mette in tensione verso il futuro e il definitivo, elimina le differenze di status e di ruolo tra i partecipanti. Rappresenta con il tempo festivo un taglio per accedere su un terreno diverso dove non vi sono solo uomini. Uno spazio sacro è sincero quando procura in chi vi entra un trasalimento, quando fa percepire una forza imprecisata e potente che comanda: togliti il cappello perché questo luogo è straripante di presenza.
Commentando la sua cappella di Ronchamps, Le Corbusier scrive: "Le sens du sacré a animé notre effort... Il y a des choses qui sont sacrèes et des chose qui ne le sont pas, qu’elles soient religieuses ou non".
Il carattere sacro del luogo è esattamente il gioco simbolico-iniziatico del chiaro-scuro, che produce un’eccettuatività, un’evidenziazione capace di immettere in un altro gioco linguistico. Il percorso iniziatico di Notre-Dame-du-Haut, oltre l’ingresso, piega ad oriente sull’asse dell’aula, nella quale l’altare viene coinvolto con estrema efficacia dalla antiprospettica divaricazione in avanti delle pareti laterali. Le fonti di luce assecondano questo percorso iniziatico con una striscia luminosa continua, che tra l’altro tiene sospesa la copertura, dando un senso di leggerezza allo spazio. Le finestrelle strombate del fianco diffondono una luminosità preziosa sui fedeli e, assieme al taglio del muro frontale, concorrono a sfumare i limiti dell’aula; la bucatura quadrata sopra l’altare, accenna col suo bagliore all’oriente; le torri periscopiche infine fanno scendere una luce morbida e vigorosa dando la sensazione di abitare uno spazio denso di presenza dall’alto .
Vorrei rimarcare questo fondamentale tratto iniziatico dello spazio sacro per prendere le distanze dall’accezione ormai datata ma persistente di chiesa come contiguità e continuità con lo spazio circostante. L’innervamento della chiesa nel quartiere per evidenziare la profonda incarnazione del cristiano nel mondo, chiamato a condividere le gioie e le pene dell’uomo moderno, è un’operazione superficiale e scorretta, profondamente penalizzante il codice simbolico che costituisce l’essenza dello spazio sacro.
Non continuità tra spazio sacro e spazio profano, ma frattura, soglia, confine, per rimarcare l’infinita differenza qualitativa dell’esperienza religiosa, per impedire di strumentalizzare Dio, per non saturare la sua Parola riducendola al nostro orizzonte di senso, per non confondere il nostro desiderio di sopravvivenza con l’atto di libertà della fede di fronte ad un Dio che tace e si sottrae alla nostra presa. In questa linea di riflessione la luce costituisce uno degli elementi simbolici strutturali che fanno di un edificio un luogo sacro. L’architetto di chiese sa catturare il corso del sole per restituire nella modulazione della luce giornaliera sentimenti di riverenza e di stupita gratitudine verso Dio nel cuore dei fedeli. Egli sa leggere le grandi pagine della storia per reintepretare creativamente la straordinaria tensione mistica che trasuda dai templi dei nostri padri.
E’ impossibile soprassedere sul motivo di fondo dell’architettura tradizionale, che è la luce solare nel corso del giorno e dell’anno con un orientamento rigido verso Gerusalemme, verso il centro del mondo. Su questo schema si sono innestante molteplici varianti. Il battistero antico prevedeva un percorso con la vasca sistemata in modo tale che il fedele scendesse i gradini con le spalle rivolte verso occidente all’occaso del sole, al regno delle tenebre e risalisse con il volto a guardare il sole di Cristo che sorge da oriente. La basilica costantiniana era costruita come un cammino verso la nuova Gerusalemme, favorito dalla fuga delle colonne che delimitavano la navata e dal gioco chiaroscurale tra l’aula buia e le vibrazioni dei mosaici policromi dell’abside che catturava il fedele e lo proiettava verso l’eschaton. La chiesa romanica accentuava il gioco iniziatico della luce: le piccole finestre impedivano il chiarore in modo tale che l’occhio si abituasse alla discontinuità del luogo sacro dilatando lentamente la pupilla su una nuova evidenza delle cose. La chiesa gotica rivoluzionava il simbolismo della luce perché le ampie vetrate erano un’inondazione di colore, ma sempre era rispettata quella discontinuità con la luce ordinaria che permetteva di riconoscere la santità del luogo. La luce degli enormi rosoni e delle immense vetrate era una luce diversa, ammaliante, che poteva catturare la chiarità stessa del sole senza esserne abbacinati in una fantasmagoria di colori cangianti nelle diverse ore del giorno.
Così le chiese rinascimentali con la ricerca delle misure secondo i canoni classici introduceva una luce che dava il senso delle proporzioni in una specie di riduzione su scala dell’ordine cosmico. Si compatta un nuovo ordine del mondo che separa dal disordine profano: "Nulla può aggiungersi o sottrarsi senza peggioramento" (L.B.Alberti).
Le chiese del tridentino ribaltano il paradigma umanistico e col barocco tentano di sfondare il tetto, di contaminare l’esterno con l’interno in una sacralizzazione del mondo e in una teatralizzazione del sacro, che hanno come centro il tabernacolo nel santuario, luogo della presenza di Dio nel mondo. Le chiese moderne sono un tentativo di secolarizzare lo spazio in nome di un religioso più orizzontale, più ingaggiato con le vicende degli uomini. Ora siamo in un momento di ripensamento perché è ritornata forte la domanda di un religioso specifico, non più ridotto all’orizzonte del mondo e allora diventa urgente recuperare la semantica simbolica dell’architettura dello spazio sacro.

4. La luce e l’illuminazione dello spazio sacro: vetrate, cupola, pitture, mosaici e luce artificiale
4.1. Luce e illuminazione
Partirei dalla problematica della luce artificiale perché ha sconvolto lo stesso codice architettonico in quanto non si è più sentita legata al corso giornaliero e annuale del sole e ha potuto gestire diversamente la luce nello spazio. Non vi è più bisogno di orientamento, non è necessario adeguarsi alla luce naturale: tutto può essere artificialmente riproposto e in ultima analisi la luce ha perduto largamente la sua qualità simbolica, si è limitata funzionalisticamente a rendere agevole la vista per la partecipazione dell’assemblea. Una luce uniforme, compatta, senza vibrazioni di chiaro-scuro rischia di annullare la percezione visiva bisognosa di zone d’ombra. Sono perfettamente d’accordo con l’osservazione di Giacomo Grasso in occasione dell’inaugurazione del nuovo impianto di luce artificiale in S.Vitale a Ravenna nel settembre 1977: "Se si parte dai mosaici ravennati, per arrivare ai dipinti e alle statue realizzati per decorare interni fino a metà ottocento, non si può che annotare che la maggior parte di essi si riusciva per lo più qualche volta a intravedere, rarissimamente a vedere in tutto il loro splendore. Se ne può almeno dedurre che chi voleva l’opera d’arte e la voleva, potendolo, assai bella, era conscio poi della rarità dell’apparizione della bellezza".
Il gioco della fascinazione del Sacro è legato al vedere-non vedere, dove l’apparizione subitanea e improvvisa della bellezza crea nel fedele un’infinita nostalgia che cresce nel tempo, che stimola la ricerca, che invoca un compimento. L’illuminazione elettrica ha distrutto questo gioco simbolico: non vi è più scarto tra la luce esterna e quella interna, non vi è più tensione di chiaroscuro, non vi è più il punto focale in cui dirigere lo sguardo perché ormai tutto è equidistante e visibile. L’architettura moderna di chiese è caduta spesso in questa ingenuità sebbene vi siano anche molti casi esemplari, che hanno anticipato la problematica di un dibattito ancora caldo tra simbolismo dell’edificio sacro e celebrazione liturgica.
Un punto dolente rimproverato dai liturgisti agli architetti di chiese è di aver edificato luoghi senza tener conto dell’azione rituale che vi si svolge. I documenti della CEI sui criteri di edificazione e di adattamento delle chiese sottolineano in modo netto questo snodo. Su questa linea interpretativa talvolta si è esagerato giungendo a giudizi drastici e negativi su tutta la vicenda architettonica del post-concilio, anche su monumenti che hanno fatto la storia dell’architettura del novecento. Mi permetto di dissentire, pur condividendo il criterio dell’intima connessione tra spazio e performance rituale, per ché a mio parere vi è ancora un’inadeguata comprensione del problema. La critica pertinente ad esempio di Sandro Benedetti in occasione della Biennale di Venezia del 1992 al razionalismo funzionalista dell’architettura, fermo alla dimensione stilistica della formatività architettonica, alla organizzazione dello spazio nella sua secca dimensione cosale senza slanci ontologici, non autorizza a funzionalizzare in modo strisciante l’architettura alla liturgia.
Se davvero lo spazio sacro deve uscire dalle secche secolarizzanti di una stagione ecclesiale che ha ridotto l’esperienza religiosa a sociologismo, è importantissimo ridare ai linguaggi simbolici della liturgia la loro articolazione estetica. Si deve ?saldare l’invenzione architettonica alla verità liturgica, però poi non si può liquidare la sin troppo celebrata cappella di Ronchamp come frutto di una religiosità ‘orizzontale’, sostanziata naturalisticamente di psicofisiologia della sensazione che deprezza il ruolo del culto.
Si può convenire con Benedetti che non vi è stata piena sincronizzazione tra spazio ed altri codici liturgici, ma non si può non ammirare la qualità del prodotto simbolico di Le Corbusier o di Michelucci nel gioco chiaroscurale dello spazio, che è un gioco fondamentale della stessa performance rituale. Non è detto che molte chiese funzionalizzate alla sequenza rituale siano riuscite a creare questa magia simbolica dello spazio iniziatico. Si sa che il programma del Concilio sulla partecipatio actuosa ha sopportato molte improvvisazioni e molte banalizzazioni razionalizzanti e non è certo una via d’uscita la riduzione dello spazio sacro al funzionamento liturgico, altrimenti vi sarebbe un’ulteriore caduta funzionalizzante e l’incapacità di trascrivere lo spazio architettonico come parte integrante della stessa sacramentalità del rito. Questo è possibile quando si attivano le dinamiche simboliche dello spazio come la luce e non quando si fa dello spazio una scatola vuota dove si collocano arredi e si prevedono percorsi per svolgere un rito.
Così il santuario della Consolazione a S.Marino, opera di G.Michelucci, è forse sacrificato per alcuni aspetti del rito, ma non per altri perché permette al rito una forte tensione iniziatica allorquando apre il buio di un’aula in tensione per il turbamento di una temuta catastrofe nucleare con spazi-percorsi verso il paesaggio e verso la luce esterna. Potremmo dire che non è ancora stato raggiunto un equilibrio accettabile tra l’estetica del simbolismo spaziale del luogo sacro e azione liturgica, ma non si può liquidare la prima in nome della seconda. Eppure vi è stato un episodio nella Germania di Rudolf Schwarz e di Romano Guardini in cui luce architettonica e liturgia hanno trovato una composizione esemplare.
La Fronleichnamskirche di Aachen del 1928 è composta da due parallelepipedi allungati, una navata principale alta circa 20 metri e una più bassa con vestibolo. Il pavimento di pietra e l’altare di marmo sono neri, le pareti e il soffitto sono dipinte di bianco: la terra e il cielo, l’umano e il divino. Nessuna abside. La parete di fondo è cieca. Nelle pareti laterali, finestre quadrate, con serramenti a filo esterno per mostrare lo spessore della muratura, lasciano penetrare una luce che viene catturata da ‘ampolle-lampada’ di vetro, appese a lunghi fili d’acciaio che arrivano quasi a terra, La luce, naturale e artificiale, misura lo spazio. Siamo indubbiamente nel Neues Bauen, anche se Schwarz, sin da allora, non accetta la modernità in quanto stile. La navata laterale molto bassa contiene la Via Crucis, i confessionali e la zona di raccoglimento per la preghiera. L’altare è sopraelevato rispetto alla comunità di qualche gradino, ma la pavimentazione è la stessa.
Commentando la Fronleichnamskirche Guardini annota: " Il suo vuoto (Leere) è di per se stesso un’immagine. Ciò è un paradosso: la forma data al vuoto nello spazio e sulle superfici non è la negazione delle immagine, ma il suo polo opposto. Questo vuoto si comporta come il silenzio davanti alla Parola. Non appena l’uomo si apre al vuoto, egli sente in questo una misteriosa presenza... La nuova architettura ha riscoperto nella superficie ben proporzionata, nello spazio vuoto e inondato di luce, una straordinaria potenzialità della manifestazione religiosa".
Fortunatamente oggi è in atto una robusta ripresa di questi temi e bisogna convenire che vi sono stati molti progressi come si evince dalle motivazioni ai premi dei ventidue progetti ammessi ai primi tre concorsi nazionali per la Parrocchia di S.Maria in Zivido di S.Giuliano, per la Parrocchia di S.Sisto in Perugia e per quella di S.Giovanni Battista in Lecce. Il dato significativo è che oramai lo spazio sacro è inteso come parte integrante del rito e in quanto tale deve assecondare il suo linguaggio simbolico per incrementare la valenza mistagogica, che introduce il fedele all’esperienza pasquale della morte e risurrezione del Signore Gesù.
Richard Meier, l’architetto della luce e dello spazio, impegnato nella costruzione della chiesa del giubileo nella periferia di Roma, interrogato sul difficile connubio di arte e preghiera, così ha risposto: "Penso che ci siano molte maniere per trattare un tipo di spazio che lasci la possibilità a ciascun individuo di mettersi in relazione con il canto, il silenzio, la preghiera. Nella nostra chiesa sono in realtà lo spazio e la luce, e il modo in cui la luce si diffonde nello spazio, che influiranno, perché il soffitto è in vetro, e si può guardar fuori e vedere i colori del giorno che cambiano. Questo fa sì che la gente possa riflettere su dove si trova e sul come si mette in relazione al mondo. I muri che sono di protezione alla chiesa e che sono in cemento, sono in qualche modo meno attivi, meno parte dell’attenzione di ciascuno: l’attenzione è concentrata su ciò che è fuori, dunque la luce modellerà i muri, cadrà sui muri, ma saranno in realtà ‘il sopra’ e ‘il fuori’ a conferire lo spazio".
Ecco un bell’esempio, per ora sulla carta, di simbolizzazione dello spazio sacro nella dinamica chiaroscurale di dentro e fuori. E’ una reinterpretazione del tema della cupola, o della verticalità assiale del gotico, o dello sfondamento ottico del tetto della pittura barocca. La luce dall’alto e dal fuori è potente simbolizzazione di quell’alterità del mistero che espropria il fedele dalla sua spazialità ordinaria e lo proietta in un mondo altro, esattamente dove vuole accedere il rito celebrato.
A questo punto giova riflettere sul nesso tra luce e illuminazione per riequilibrare la tensione tra naturale e artificiale. Abbiamo appurato che il progetto architettonico non può limitarsi a misure e proporzioni senza prendersi il carico del gioco chiaroscurale, che fa del luogo un simbolo della presenza altra. Il rapporto tra le masse murarie e l’incidenza della luce solare durante il giorno e nell’anno sono il rompicapo, che alla fine definisce la qualità e il rigore di un’opera.
In architettura, come sostiene Giovanni Pozzi in un’edizione dedicata alla chiesa di Mogno in Canton Ticino opera di Mario Botta, un muro è un muro, una finestra una finestra e nient’altro - linee rette e curve, pieni e vuoti, costituiscono una sintesi armonica, ma non un sistema di significati concettuali. L’importante è capire come è stata costruita questa sintesi: più il linguaggio è elementare rinunciando a effetti speciali, meno esibizionistico ed autoreferenziale risulta l’artefatto. Se prendiamo in considerazione alcune realizzazioni recenti troviamo la verità di questo principio, che si stilizza soprattutto nel gioco muratura-luce. Per esempio la chiesa di S.Stefano ad Arnsberg-Niedermaier, opera di Gisberth Hülsmann è un miracolo nel semplice gioco dicotomico tra elementi contrapposti: "Semplice e complessa", annota la felice recensione di Glauco Gresleri, "dura nei materiali, lieve nella luce. L’impianto è rigoroso ed elementare, originandosi da un parallelogramma che pare di immediata lettura geometrica. Ma, a poco a poco, la forma si sdoppia in una serie di immagini virtuali che utilizzano alcuni lati ma ne ignorano altri, convergono o no su pilastri rotondi, accorciano o allungano i settori del perimetro, si protendono in allungamenti formali che tramutano la figura centripeta in una svastica a spinta dirompente verso direzioni opposte". Tutto questo meccanismo di forme, così poliedrico nelle sue molte possibilità di lettura ricondotta alla identità delle figure che lo compongono, si acquieta salendo verso l’alto, prima decantandosi in un ottagono a lati opposti uguali tra loro e diversi dagli altri reciproci, per continuare in un prisma a pianta quadrata e terminare infine nella quiete assoluta della chiusura piramidale... ma non basta.
La materia si fa fortissima nella cortina muraria con adozione di sasso sbozzato montato in modo non regolare..., chiama alla presenza il legno per utilizzarne il colore e il senso domestico a mitigare il segno forte della pietra e, via via verso l’alto sottrae peso alla materia, sino ad arrivare alla sola luce della grande lanterna. Così il meccanismo di tensione e decompressione instaurato nello spazio dai materiali si evolve da un massimo di forza ad un massimo di labilità.
Ed è qui che irrompe la magia. Non dal basso verso l’alto, come il senso statico innato nel nostro meccanismo di memoria e di riconoscibilità ci abitua a riscontrare, ma viceversa, dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra, dalla luce verso la penombra, ‘scende’ la struttura quadratica a galleggiare sopra di noi, ma soprattutto a misurare come di colpo lo spazio chiuso tra mura. Ed è questa magia della struttura pensile, galleggiante nel vuoto sopra l’assemblea a dare centralità all’altare e a descrivere in modo ordinato, rigoroso e assolutamente cristallino tutto l’impianto architettonico. Nel gioco chiaroscurale dell’architettura si attiva la simbolizzazione iniziatica del passaggio all’esperienza religiosa.
Talvolta la simbolizzazione dello spazio sacro è enfatizzata da molteplici selettori di luce, vere e proprie macchine di fotosintesi simbolica. Vetrate, dipinti, mosaici sono strumenti, artifici per la modulazione della luce esattamente come la struttura architettonica, per ottenere effetti speciali e per produrre sentimenti nello spettatore. Se c’è un elemento nell’architettura che ha la funzione non di essere visto ma di far vedere questo è la vetrata. La finestra trasferisce in modo abbastanza diretto la luce naturale nell’ambiente architettonico, la vetrata trasfigura la luce in simbolo prima ancora che possa giocare con la struttura muraria; trasfigura la luce fisica in luce metafisica.
Le vetrate, spiega P.A.Sequeri commentando le nuove vetrate della cattedrale di Nevers, sono "anticipazioni fisiche e metafisiche - ‘estetiche’ appunto - di una scienza e di una sapienza non ancora compiutamente dispiegata. Articolazione colorata della vetrata-retina che tocca il sole e avvolge il grembo, a imprigionare la luce bianca di tutte le essenze e dar vita alla risonanza spirituale delle forme corporee. Figurazione diafonica del reticolo-polifonia, che raccoglie l’architettura verticale di tutte le voci possibili e dà vita al sentimento corale della loro segreta armonia interiore". La magia delle vetrate non si ottiene assemblando vetri colorati, neppure assecondando quel pessimo gusto oleografico delle figure bibliche o agiografiche a scopo edificante, si ottiene attraverso il sapiente dosaggio della luce nelle varie ore del giorno filtrata dall’arte di accostare i colori. La vetrata non dovrebbe perseguire disegni didattici, già la sua capacità di trasformare la luce in un gioco astratto di colori riesce a produrre una profonda esperienza estetica. Il mosaico è un’altra tecnica per la magia della luce, perché la sua vibrazione riflessa sulle tessere a spacco a seconda dell’angolo di incidenza offre una sensazione di movimento e di vita all’osservatore.
Naturalmente ciò è esaltato se le tessere, invece che di materia opaca, sono paste vitree magari colla pellicola d’oro fusa tra due vetri. Anche l’arte iconografica rappresenta un modo classico di incarnazione della bellezza e della luce inattingibile. L’icona tende al pragmatico in quanto ha una immediatezza di tipo spaziale, tattile, non temporale come invece avviene nella parola e nel racconto. La fenomenologia dell’immagine rileva che la visione è all’origine di quella speciale prassi che è il rito. R.Guardini scrive: "Il regno a cui rimandano e da cui emergono le immagini sembra sia quello della visione; la sua prima forma l’oracolo; il suo primo ambiente il culto e il mito". Nell’immagine iconografica si salda intimamente lo spazio architettonico coll’azione rituale, anzi in essa diventa manifesto che il simbolismo spaziale della luce è parte integrante della messa in opera del rito.
Ritorniamo allora al quesito sul rapporto tra luce e illuminazione per riproporlo nuovo. L’illuminazione è l’intervento artificiale per strappare dal buio lo spazio, allorché vien meno la luce del giorno e riproporre la sua valenza simbolica. Deve guidare in un mondo vivo, palpitante, invitante alla riflessione, all’attraversamento di esperienze, deve concedere improvvise emozioni e forti slanci del cuore. Non può permettersi bagni di luce indifferenziati e unificati, piatti e monotoni, non ammette dilettantismi né immotivate forzature sceniche. Anche nell’illuminazione di opere d’arte bisogna evitare l’alterazione dei parametri scientifici per lasciarsi andare alla accentuazione drammatica del colore, della textura, della materia di cui è composta l’opera .

4.2. Il simbolismo della luce e l’azione liturgica
Il vedere non-vedere del simbolismo dello spazio sacro incrementa il significato mistico del rito in quanto offre una percezione plastica della condizione mondana come disabitazione. Per J.-Y.Lacoste la disabitazione è l’essenza del Da-sein, garantita dalla liturgia.
Le mani che si elevano per il sacrificio serale, non sono un’espressione inessenziale all’interno di una spiritualità sapiente, winende Geistigkeit - così Hegel pensa il culto - che sarebbe estranea in sé all’ordine della carne e del luogo; esse non sono l’indice esteriore di una realtà interiore: l’esteriore e l’interiore, il corpo e l’anima, corrispondono come il diritto e il rovescio di una sola realtà.
Nel costruire templi o chiese non commettiamo neppure un controsenso: dimostriamo anzi che il nostro rapporto con l’Assoluto mobilita la nostra attitudine a costruire e abitare, che è, ancora, un tratto essenziale della liturgia. Si deve dunque cogliere che non é per un arbitrio terminologico che abbiamo scelto di dare in generale il nome di liturgia a tutto ciò che incarna la relazione dell’uomo a Dio. Poiché la liturgia ingloba la vita spirituale, o la preghiera, con le sue espressioni topologiche, essa é quel concetto che ci impedisce di compiere la rovinosa separazione di interno ed esterno, corpo e anima: pensare la liturgia ci costringe sempre a pensare anche al luogo. Occorre tuttavia sottolineare un punto: la liturgia é opera di libertà.
L’abitazione poetica della terra consente ad Hölderlin, secondo l’interpretazione heideggeriana, di conoscere il Dio sconosciuto che appare come sconosciuto attraverso le manifestatività (Offenbarkeit) del cielo: ed essa non é che un destino. L’abitazione liturgica dei nostri luoghi nasce, invece, da una nostra decisione. Riguardo al nostro rapporto con il luogo, essa ha da dire forse l’ultima parola. La liturgia detiene forse in ultima istanza i segreti della topologica.
Ma il Dio a cui la liturgia ci pone di fronte, non é in una necessaria appartenenza al campo dell’esperienza. La liturgia eccede l’essere-nel-mondo, come eccede il rapporto con la terra.
La liturgia sovrappone all’essere-nel-mondo un essere-al-confine. Nel porci nella prospettiva del confine, non intendiamo dire, evidentemente, che il nostro rapporto con il mondo ha una valenza antica; occorre piuttosto non perdere di vista che il confine separa due ordini dell’esperienza e non due regioni dell’essere (l’al di qua non è una regione da cui l’Assoluto sarebbe assente)... E’ un campo d’esperienza a cui non subordiniamo più alcuna nostra aspettativa , anzi, ci disinteressiamo del suo gioco in un modo più che simbolico (nel senso stretto del termine), in cui ci rendiamo capaci di autorizzare un’altra struttura della presenza.
Tale disinteresse non è certo senza pericoli, come si è detto. Colui che prega non cessa di essere preso nel gioco del mondo. E, soprattutto, l’esperienza della chiusura e la dimostrazione liturgica che questa chiusura può essere spezzata, non ci conferiscono alcuna presa sull’Assoluto; la frontiera del mondo e delle realtà ultime, o escatologiche, è quella del disponibile e dell’indisponibile. La liturgia è negativa e positiva allo stesso tempo, essa nega che la logica dell’inerenza sveli tutto ciò che siamo e afferma il nostro desiderio di esistere davanti a Dio. Ma tale affermazione non ci dà il diritto di stare di fronte a Dio: quando tentiamo di pregare, contestiamo che l’essere-nel-mondo detenga tutte le ragioni del nostro essere e presumiamo che una relazione all’Assoluto può essere la prima e l’ultima parola su ciò che siamo.
La liturgia, in base alla nostra interpretazione, assume una funzione diversiva. Ma la liturgia, in quanto ci appare come potere di sovvertimento, conferisce piena realtà a ciò che essa tenta di sovvertire simbolicamente e/o incoativamente. La liturgia, più che ai concetti muove contestazione al reale. Nel tenere precariamente a distanza il chiaro-scuro del mondo, ci ricorda che questi è un tratto essenziale della nostra mondanità. Nel sovvertire la nostra terra e il nostro mondo essa li conferma come nostre strutture sorgive in base alle quali si dispiega il nostro rapporto al luogo.
Secondo l’interpretazione heideggeriana, nulla meglio del tempio aderisce al ritmo sorgivo in base al quale le cose sono quello che sono e per il quale sono in gioco il destino degli uomini e quello degli dei. L’architettura liturgica corrisponde a un altro ritmo e ad un altro destino, che può essere posto nella duplicità, secondo il doppio dispiegamento del luogo. La chiesa obbedisce infatti a una logica già scoperta, che è quella del non-luogo. Sia che si erga in mezzo al mondo sia che poggi le sue fondamenta sulla terra, essa non è critica del mondo più di quanto non cristallizzi i significati della terra. Noi, o i nostri antenati l’hanno costruita. Ma non ci viviamo. E se la sua presenza visibile ci ricorda ciò che l’Assoluto rivendica su di noi, non l’abitiamo che saltuariamente, quando cioè accettiamo che il nostro tempo sia il Kairos in cui far fronte a Dio e non più il chronos che misura la nostra presenza al mondo. Superficialmente confrontabile con qualsiasi luogo, essa se ne differenzia.
Soltanto la liturgia deve dare forma al nostro starvi. L’essere-là ci è secondario. I non-luoghi della clausura e dell’erranza già ce lo insegnavano con altre intonazioni. E’ perciò necessario dire anche che la chiesa non è un riparo per proteggerci, con la garanzia dell’Assoluto, dalle inquietudini di un mondo incapace di assumere per noi i tratti di una patria. Questo luogo è certamente un monumento commemorativo, o una lezione di pensiero teologico. Ma occorre intenderci su questa lezione. La chiesa non si propone, infatti, come spazio istituito per una esistenza definitiva e il suo nartece non separa le disgrazie della storia dalle felicità dell’eschaton. Essa ci propone qualcosa d’altro. Il luogo di una fragile anticipazione.
L’intervallo durante il quale l’abitiamo, e cioè il tempo di un culto o il tempo di una silenziosa contemplazione, mette fuori gioco le richieste della storia e le leggi che mondo e terra fanno pesare su di noi: la logica del luogo sarà sempre in grado di impadronirsi del non-luogo liturgico. Non è poca cosa utilizzare l’arte di costruire per eludere simbolicamente e come un’anticipazione sia le ragioni storiche del costruire e dell’abitare sia quelle della nostra non-domiciliazione mondana.
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