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Carnevale e liturgia
Riflessioni sul tema del carnevale

Lo scrittore José Saramago ha rievocato nel romanzo "Memoriale del convento" il clima carnascialesco della Lisbona settecentesca. "E' corso il carnevale per queste vie, chi ha potuto si è rimpinzato di pollo e di montone, di struffoli e di frittelle, si è dimenato in tutti gli angoli chi non perde occasione di licenza, si sono attaccate code per scherno a gente che scappava, si è spruzzata acqua in faccia con cannule di clisteri, si sono frustati gli incauti con reste di cipolle, si è bevuto vino fino al rutto e al vomito, si sono rotte pentole, si sono suonati pifferi e se altri non si sono rotolati per strade, piazze e vicoli, a pancia all'aria, è stato perché la città è sozza, tappezzata di escrementi, di rifiuti, di cani rognosi e gatti randagi, e melma anche quando non piove".

La gerarchia ecclesiastica ha sempre stigmatizzato l'eccesso e l'anomia presenti nel carnevale, ma non ha mai immaginato che proprio questi aspetti-limite avessero a che fare colla dimensione religiosa. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che una parte della chiesa ha intravisto questa relazione, patrocinando in epoca medioevale la "festa dei folli", la "festa dell'episcopello" e la "festa dell'asino". Queste feste si ispiravano alla liturgia per rovesciarla. Il mondo sacrale veniva rovesciato, impazziva; l'alto si trasformava nel basso. Lo scopo non era di desacralizzare, ma di consolidare il Sacro. Si voleva "aspernari vetera", cioè disprezzare il vecchio e ritornare al primo giorno della creazione. Non era dunque un'invasione del profano nel mondo del Sacro. Ciò trova conferma dalla presenza nelle feste degli stessi chierici e dalla datazione nei tre giorni immediatamente successivi il Natale. La "festa dei folli" era, a suo modo, un Natale, che rivelava una profonda intenzione religiosa. In questa festa si celebrava l'"officium lusorum", cioè la messa cantata dei giocatori d'azzardo, i quali tiravano i dadi, come al momento della creazione, per la rinnovare il mondo. Così nella "festa dell'asino" il raglio era la voce cosmica, perché i due tempi, "ih-" che sale, "-oh" che scende, segnavano il passaggio dal "caos" al "cosmos", dal disordine all'ordine. Anche le orecchie dell'asino avevano potere sacrale ed erano fonti di sapienza contrariamente al nostro modo di pensare. Esse infatti raccoglievano con le loro dimensioni il suono dell'Invisibile e captavano le profondità del Mistero.

Purtroppo questi tentativi non ebbero seguito, anzi furono presi di mira dalla gerarchia ecclesiastica, la quale si limitò a riconoscere nel carnevale una correlazione con la quaresima, senza però approfondirne le ragioni. Ci si accontentava dell'etimologia, secondo cui "carni vale!" sarebbe un addio alle carni e segnerebbe l'ingresso nello stato di penitenti. La chiesa dunque, nonostante i tentativi avviati qua e là, non è riuscita a saldare le polarità del carnevale e del sacro, al massimo si è rassegnata a tollerarle.

Ci chiediamo: quale rapporto può esistere fra il contagio dell'eccesso carnevalesco e il religioso? Di fatto il nostro carnevale è una sopravvivenza delle feste "saturnalia" romane, arrivato fino a noi solo a condizione di negare ogni riferimento al Sacro e con uno scopo solo ricreativo. Un'apologia del sec.XIV esprime le ragioni dell'utilità della "festa dei folli": "La follia che è la nostra seconda natura e sembra innata nell'uomo, possa, almeno una volta l'anno, manifestarsi liberamente. Le botti di vino scoppiano se di tanto in tanto non si aprono dei fori e non vi si penetrare dell'aria. Gente, noi uomini siamo botti inchiodate male, che scoppiano dal vino della saggezza, se questo vino si troverà nell'incessante fermentazione della devozione e della paura di Dio. Bisogna fargli prendere aria affinché non vada a male. E' per questo motivo che, in determinati giorni, ci permettiamo la follia, per poter ritornare, in seguito, con maggiore zelo a servire il Signore". La singolarità del ragionamento, che si appella al diritto di una tregua nella lotta della vita, è interessante, ma perde di vista irrimediabilmente il legame intrinseco tra carnevale e mondo religioso. In tal modo le follie carnevalesche fanno solo affiorare l'eccesso senza possibilità di un rinnovamento della comunità. E' solo una boccata d'aria che avvelena e si riduce alla soddisfazione di invertire i ruoli per il gusto trasgressivo di violare lo status sociale e gli equilibri psicologici. La maschera non metamorfizza, non trasforma più l'individuo e il gruppo, è ridotta a "carattere", a macchietta.

Nei popoli tradizionali invece, fino al teatro greco, il mascheramento libera, protegge, trasforma. La sua espressione cristallizza uno stato a cui è pervenuto il dio o il personaggio rappresentato: "fuori di sé" nel furore o nella gioia, egli si è "dilatato". La maschera riafferma implicitamente l'umanità del portatore dopo averlo fatto passare temporaneamente in un altro regno spesso inumano, o almeno trasgressivo, come l'eliminazione dei sessi o la momentanea confusione. In questo senso la maschera è iniziatica perché permette il passaggio da una condizione all'altra ed è simbolica del dinamismo di rinascita e di catarsi a cui l'uomo aspira dal momento in cui entra sulla scena del mondo. La maschera rituale, memoria mitica, rinnova la cosmologia, vincola l'uomo alla forza sacra degli antenati e degli dei, permette di ri-nascere. Nelle grandi società d'iniziazione "Bambara", quando un iniziato parla della "testa del Komo", intende un insieme che costituisce la maschera propriamente detta: la testa è conformata nei suoi elementi al cranio della vecchia iena, associata alla conoscenza profonda, alla bocca del coccodrillo che sistemò nel mare l'arco della creazione, alle corna dell'antilope che simboleggiano la luce iniziale della creazione; la tunica fatta di bande di cotone su cui sonofissate le piume di avvoltoio, ornati di 266 segni della creazione; le zampe d'elefante, fissate alla caviglia del danzatore simboleggiano i pilastri dell'universo; il fischietto in ferro o in cuoio evoca col suo sibilo stridente il rumore iniziale della creazione. Infine la "testa di Komo", detta Komo kü, designa anche il portatore di tutti questi oggetti e la danza che il portatore effettua. E' infatti nel corso delle danze mascherate che il senso delle grandi iniziazioni è evocato: l'adolescente deve morire alla sua condizione antica per ri-nascere alla nuova condizione d'adulto. La maschera dunque sta per i "popoli tradizionali" nel punto d'articolazione della vita e della morte.

Quando però la maschera perde questo potere metamorfizzante e si riduce a "carattere", come è avvenuto nel teatro romano e nella "commedia dell'arte" italiana, allora la maschera rappresenta più la tragedia dell'uomo, che non il suo affrancamento. Le maschere, che imitano i "caratteri" del vecchio avaro, del giovane seduttore, del lenone, del padre insensibile, della moglie infedele, non hanno più un significato catartico, di trasformazione dell'umanità, ma semplicemente mettono in scena l'ottundimento del mondo. Anche il lieto fine delle commedie di Plauto o di Terenzio non porta i personaggi a comunicare o ad elevarsi, semplicemente è la conclusione di un intrigo in cui ognuno rimane se stesso, ritrovando l'equilibrio della mediocrità. Il pubblico si diverte vedendo rispecchiati i suoi difetti, e così viene giustificata la trivialità piuttosto che rimediarla. La maschera si colora di grottesco, diviene l'alibi della licenza senza responsabilità, l'apoteosi del libertinaggio senza liberazione.

Ormai i nostri carnevali hanno preso questa piega del puro divertimento, dell'assenza di controllo, ma non in vista di un bagno rigeneratore, bensì di una regressione nel mero abuso. La maschera serve solo per nascondersi, come hanno fatto Adamo ed Eva dopo aver mangiato dell'albero proibito, divenendo così il simbolo della perdità di identità e della colpa senza futuro.

Questo risultato non si è prodotto da sé, ma va ascritto anche alla insufficienze della chiesa, che non ha saputo comprendere e sfruttare religiosamente questa struttura antropologica ineliminabile e l'ha semplicemente demonizzata.

Non sarebbe male se la chiesa ripensasse la questione e coordinasse pastoralmente il carnevale con la quaresima, non mettendosi a gestire carnevali "cattolici", ma accogliendo il significato positivo del carnevale come esigenza di rimescolare le carte per evitare la stagnazione della vita e per disporsi al cambiamento della penitenza quaresimale.
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