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Il Nuovo Paradigma della Complessità
IL NUOVO PARADIGMA DELLA COMPLESSITÀ ECOLOGICA E IL GRUPPO SOCIALE (Padova, Facoltà di psicologia sociale 23.05.02)
L’amore della complessità senza riduzionismo produce l’arte;
l’amore della complessità con il riduzionismo dà luogo alla scienza.
EDWARD O.WILSON



L’intervento intende stabilire il nesso epistemologico dell’affermarsi di un nuovo paradigma ecologico, con le problematiche squisitamente psicologiche del gruppo sociale. Il guadagno dovrebbe riguardare il superamento dell’antropocentrismo tipico dell’occidente moderno e post-moderno e dovrebbe avviare una nuova considerazione del sociale in termini di equilibrio ecologico del sistema, con spunti inediti a vari livelli. L’interfaccia tra rinnovato stile epistemologico e ricaduta psicologica sulla concezione del gruppo sociale, è promossa dal fenomeno culturale che gli antropologi indicano col nome di rito, che garantirebbe l’equilibrio omeostatico tra i diversi livelli del sistema Gaia con la tipica struttura simbolica di ordine e disordine.
Procederemo con una veloce riflessione sull’epistemologia dei paradigmi, a cui farà seguito una sommaria descrizione del paradigma ecologico. Poi introdurremo il rituale Tsembaga nella lettura di Roy Rappaport. Infine ribadiremo la funzione ecologica del rito in relazione al gruppo sociale nella versione dei riti di passaggio studiati da V. Turner. La tesi di fondo è che il gruppo sociale, prima di essere un’esigenza dell’individuo o del gruppo etnico, è un’esigenza ecologica legata sia alla organizzazione della complessità, sia alla personalizzazione dell’individuo e del creato, sia allo scambio di vita e morte in un equilibrio di libertà ed alterità.

1. La teoria dei paradigmi
L'indagine si muove sulla linea della "analisi dei paradigmi", elabo-rata da Thomas S. Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza . Un "paradigma" è "l'intera costella-zione di credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di una data comunità" . Ora questi paradigmi hanno una loro storia: nascono, si affermano, vengono superati, tentano di resistere alla novità, infine ce-dono il passo. Questa dinamica ha delle leggi sia per le scienze naturali, sia per le scienze dello spirito, come la psicologia. Queste leggi si possono ridurre a cinque.
1. Come nella scienza naturale anche nella psicologia c'è una "scienza nor-male" con i suoi classici, testi-base e maestri, la quale è caratterizzata:
- da una crescita cumulativa della conoscenza
- da una soluzione di pro-blemi residui ("Enigmi") e
- da una resistenza contro tutto ciò che potrebbe avere come conseguenza il mutamento o la sostituzione del modello di comprensione e del para-digma stabilito.
2. Come nelle scienze naturali, pure in psicologia è per lo più la coscienza di una crisi crescente a costituire la situazione di partenza affinché si per-venga ad una trasformazione decisiva in certe concezioni di fondo, fi-nora in vigore, e, infine alla comparsa di un nuovo modello interpretativo o pa-radigma: là dove le regole e i metodi esistenti vengono meno, si è in-dotti alla ricerca di nuove regole e di nuovi metodi.
3. Come nelle scienze naturali, anche nella psicologia un modello di com-prensione o paradigma vecchio viene sostituito quando ne è già pronto uno nuovo.
4. Come nelle scienze naturali, anche in psicolo-gia, nell'accettazione o nel ri-fiuto di un nuovo para-digma entrano in gioco fattori, non soltanto scienti-fici, ma anche extrascientifici, così che il passaggio a un nuovo mo-dello non può venire imposto razional-mente, ma deve essere descritto come una conversione.
5. Come nelle scienze naturali, anche in psicolo-gia è solo con difficoltà che si può prevedere, in mezzo a grandi dispute, se un nuovo modello di com-prensione o paradigma viene assorbito oppure sostituisce quello vecchio, o invece non viene archiviato per lungo tempo. Se viene accettato, l'inno-vazione si consolida in tradizione .

2. Il paradigma della complessità ecologica
Lo scienziato L.Smolin ha sostenuto che l’ecologia ha prodotto a livello sincronico, la stessa rivoluzione dell’evoluzione delle specie a livello diacronico . L’ecologia nasce dalla constatazione dell’intima relazione tra le parti e il tutto. Secondo Arne Naess vi è un’ecologia superficiale e un’ecologia profonda, chiamata ecologia T, dove T è l’iniziale del monte Tvergastein, un luogo di memoria in cui si è consumata l’iniziazione alla vita selvaggia dell’autore in una capanna sperduta insieme con un montanaro. Qual è la piattaforma dell’ecologia profonda? Naess individua otto punti:
1. Il fiorire della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non umane è indipendente dall’utilità che queste possono avere per i limitati scopi umani.
2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono valori in sé e contribuiscono alla prosperità della vita umana e non umana sulla Terra.
3. Gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre questa ricchezza e questa diversità, se non per soddisfare bisogni vitali.
4. L’attuale interferenza umana nel mondo non umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando rapidamente.
5. Il fiorire della vita umana e delle diverse culture è compatibile con una sostanziale diminuzione della popolazione umana. L’esistenza stessa delle forme di vita non umane esige tale diminuzione.
6. Un miglioramento significativo delle condizioni di vita richiede un cambiamento nelle politiche attuali. Queste politiche influiscono sulle strutture economiche, tecnologiche e ideologiche fondamentali.
7. Il primo cambiamento ideologico dovrebbe consistere nell’apprezzare la qualità della vita (e quindi le situazioni che hanno un valore intrinseco) invece di promuovere un alto tenore di vita. Ci deve essere una profonda consapevolezza della differenza tra ciò che è grande dal punto di vista quantitativo (big) e ciò che lo è dal punto di vista qualitativo (great).
8. Coloro che sottoscrivono questi punti si impegnano a partecipare, direttamente o indirettamente, allo sforzo di realizzare le trasformazioni necessarie .

La terra secondo la cosiddetta ipotesi Gaia di J.Locelock sarebbe un unico grande organismo vivente . Connessa a questa idea vi è il principio della complessità per cui la nostra vita è all’interno di sistemi autorganizzati. Mi spiego con un esempio tratto John D.Barrow: "Provate a versare un po’ di sale o di zucchero su una superficie piatta. Osservate come si formi un piccolo cumulo. Sull’inizio esso diventerà sempre più ripido; si avranno continuamente piccole valanghe che sposteranno un po’ di materiale lungo le pendici. Poi, però, accade qualcosa di interessante. Il cumulo raggiunge una particolare pendenza, oltre la quale non va. Continuano a verificarsi valanghe di varia entità, ma esse servono soltanto a lasciare le pendici del cumulo in equilibrio a questo particolare angolo ‘critico’. Lo stesso avviene con dei chicchi di riso o dei granelli di sabbia. Il cumulo può alla fine assumere diverse forme, ma lo schema base di comportamento sarà lo stesso. Una concatenazione di eventi individualmente imprevedibili porta alla costituzione di un mucchio incredibilmente ordinato".
Se l’esempio del mucchio di sale si applica a molteplici fenomeni, compresa la mente, si avrebbe un criterio di autorganizzazione del sistema, che al di là dei fenomeni caotici, manterrebbe in equilibrio la complessità del mondo. Così il pensiero scientifico si sta convertendo dalla linearità alla complessità; non si parla più di meccanicismo né di teleologia. H.Atlan scrive: "I modelli di autorganizzazione consentono di vedere negli organismi viventi non più una sorta di automi diretti da un programma determinista fornito dall’esterno" bensì dei sistemi autorganizzatori i cui principi stanno iniziando a diffondersi nelle ricerche sull’intelligenza artificiale. Ciò che caratterizza l’autorganizzazione è uno stato ottimale che si situa tra i due estremi di un ordine rigido inamovibile," com’è l’ordine del cristallo, e di un rinnovamento incessante e senza alcuna stabilità che evoca il caos e gli anelli di fumo" .
In un convegno su "Interrogativi critici sul pensiero neoparadigmatico", svoltosi alla fine del 1985 presso l’Elmwood Institute a Esalen, Fritjof Capra propose una lista delle caratteristiche del "pensiero neoparadigmatico".
- Il vecchio paradigma scientifico può essere chiamato cartesiano, newtoniano o baconiano, giacché le sue caratteristiche principali furono formulate da Cartesio, Newton e Bacone.
- Il nuovo paradigma può essere chiamato solistico, ecologico o sistemico, ma nessuno di questi attributi lo caratterizza completamente.
- Il pensiero neoparadigmatico nella scienza comporta i cinque criteri che saranno esposti di seguito; i primi due si riferiscono alla nostra visione della natura, gli altri tre alla nostra epistemologia.
1. Transizione dalla parte all’intero
- Nel vecchio paradigma si riteneva che in un sistema complesso la dinamica dell’intero si potesse dedurre dalle proprietà delle singole parti.
- Nel nuovo paradigma il rapporto tra le parti e il tutto è invertito. Le proprietà delle parti possono essere comprese solo alla luce della dinamica dell’intero. In definitiva, le parti non esistono. Ciò che chiamiamo parte è solo una configurazione in una rete inseparabile di relazioni
2. Transizione dalla struttura al processo
- Nel vecchio paradigma si presumeva l’esistenza di strutture fondamentali, e quindi di forze e meccanismi attraverso i quali esse interagivano, dando così vita ai processi.
- Nel nuovo paradigma ogni struttura è vista come la manifestazione di un processo soggiacente. L’intera rete di relazioni è intrinsecamente dinamica.
3. Transizione dalla scienza oggettiva alla "scienza epistemica?
- Nel vecchio paradigma le descrizioni scientifiche erano ritenute oggettive, ovvero indipendenti dall’osservatore umano e dal processo di conoscenza.
- Nel nuovo paradigma si ritiene che l’epistemologia – la comprensione del processo della conoscenza – vada inclusa esplicitamente nella descrizione dei fenomeni naturali.
- Attualmente non c’è accordo su cosa sia propriamente l’epistemologia, ma si sta diffondendo la convinzione che essa dovrà essere parte integrante di ogni teoria scientifica
4. Transizione della metafora della conoscenza dall’edificio alla rete
- La metafora della conoscenza come edificio – le fondamenta delle leggi e dei principi, i mattoni di base ecc. – è stata usata nella scienza e nella filosofia occidentali per migliaia di anni.
- Nel corso di un mutamento di paradigma si avverte la sensazione che le fondamenta della conoscenza stiano cedendo.
- Nel nuovo paradigma questa metafora viene soppiantata da quella della rete. Quando percepiamo la realtà come una rete di rapporti, anche le nostre descrizioni formano una rete interconnessa che rappresenta i fenomeni osservati.
- In una rete di questo genere non ci saranno né gerarchie né fondamenta.
- Il passaggio dall’edificio alla rete implica anche l’abbandono dell’idea della fisica come l’ideale su cui tutte le altre scienze sono modellate e giudicate, e come la principale fonte di metafore per le descrizioni scientifiche.
5. Transizione dalla verità alle descrizioni approssimate
- Il paradigma cartesiano poggiava sulla convinzione che la conoscenza scientifica potesse pervenire a certezze assolute e definitive.
- Nel nuovo paradigma si riconosce che tutti i concetti, le teorie e le scoperte hanno carattere limitato e approssimato.
- La scienza non potrà mai offrire una comprensione completa e definitiva della realtà.
- Gli scienziati non si occupano della verità (nel senso della corrispondenza esatta tra la descrizione e i fenomeni descritti), ma di limitate e approssimate descrizioni della realtà
Non possiamo soffermarci ulteriormente su questo nuovo paradigma, solo ci preme sottolineare che, oltre a superare il dualismo di soggetto oggetto, rende obsoleto l’antopocentrismo tipico della modernità e della post-modernità. Anche quest’ultima infatti insiste sulla centralità dell’uomo, sebbene aggiunga subito che l’uomo è ben poca cosa. Il paradigma della complessità ecologica appoggia una "epistemologia biologica" per cui Varala afferma: "La mente e il mondo sorgono insieme" .
Il passaggio ulteriore è verificare la società come sistema cognitivo dove il rito opera culturalmente il passaggio tra ordine e disordine, connettendo i diversi strati del sistema verso un’autocoscienza ominizzante, o verso la noosfera di Teilhard de Chardin.


2. Il rito come meccanismo omeostatico
In tutta questa autorganizzazione del pianeta qual è la funzione del rito in relazione al gruppo sociale? E’ famosa la tesi di E.Durkheim secondo il quale il rito avrebbe la funzione di reintegrare gli stati mentali del gruppo sociale, per cui non ci sarebbe rinnovamento della società senza il rito. Il culto, scrive Durkheim, ha così realmente l’effetto di ricreare periodicamente un essere morale da cui dipendiamo come esso da noi. Ebbene questo essere esiste: è la società. L’evidente riduzionismo della religione alla società non elimina la profonda connessione tra rito e costituzione del gruppo sociale. Il rito, a dire il vero, sarebbe un organizzatore di tante esperienze, non solo quella sociale, per paura del caos e per trovare un orientamento nella complessità. Il rito ha certamente una funzione di esonero rispetto alla complessità in quanto va alle radici prime e ultime della vita, ma è soprattutto una "condensazione simbolica" (V.Turner) in cui si organizzano molteplici aspetti fondamentali della vita attorno al nodo della finitezza e della morte.
Le domande a cui dovremo rispondere sono tante: qual è il nesso tra stilizzazione verso la trama elementare del rito e condensazione verso la sua complessità? Quale la relazione tra rigidità e creatività, o per dirla con Rappaport, tra canonicità e flessibilità? Come intendere la sua funzione biogenetica per cui esso sarebbe portatore di ripristino e di equilibrio di vita e insieme creatore di nuova vita? Come interfaccia il desiderio di entropia e di stabilità dell’individuo, con il sovvertimento prodotto dall’altro? Nei due casi il rito assolverebbe a compiti molto differenti: funzionale al sistema oppure sovvertitore dell’ordine consolidato. E se il rito tenesse entrambi i versanti del problema e fosse conservatore e distruttore?
Nell’opera paradigmatica di R.Rappaport "Maiali per gli antenati" sembra evidente che presso gli Tsembaga della Nuova Guinea il rito regoli i molteplici livelli del sistema ecologico.
- Si regolano le relazioni tra popolazione, maiali e orti. Tale regolazione opera direttamente proteggendo la gente dall’eventualità di un parassitismo e di una concorrenza da parte dei suoi stessi maiali, e indirettamente proteggendo l’ambiente in quanto contribuisce a conservare estese aree di foresta vergine e garantisce un’adeguata proporzione tra coltivazione e maggese nella foresta secondaria;
- Si regolano la macellazione, la distribuzione e il consumo del porco e ne esce esaltato il valore di questa carne nel regime alimentare;
- Si regola il consumo di animali non domestici secondo un criterio che tende ad accrescerne il valore per la popolazione nel suo insieme;
- Si riesce a conservare la fauna marsupiale;
- Si ottiene una ri-dispersione della popolazione nel territorio e la ridistribuzione della superficie tra gruppi territoriali;
- Si sottopone a regola la frequenza della guerra;
- Si mitiga la violenza della lotta fra gruppi;
- Si facilita lo scambio di beni e persone tra gruppi locali” .
Come si vede il rituale tsembaga è un meccanismo regolatore in una serie di sistemi interconnessi, che mantiene in equilibrio l’ecosistema. Il rito nella versione ecologica è una procedura omeostatica di molteplici aspetti da mantenere in equilibrio. Il principio ordinatore è l’adattamento, che secondo R.Rappaport serve "per designare i processi attraverso cui i sistemi viventi di ogni sorta mantengono se stessi, o persistono nel confronto delle perturbazioni che si originano nei loro dintorni". In tale prospettiva è palese un tentativo rassicurante di preservare l’ordine per evitare qualsiasi crisi. Eppure vi sono dei costi notevoli, che ogni aspetto del sistema deve pagare, compresi gli uomini. Per esempio quando la popolazione tsembaga aumenta con la conseguente diminuzione di maiali, deve intervenire un meccanismo rituale violento come "il ciclo rituale del nemico" per ristabilire l’equilibrio. Evidentemente la sovrappopolazione non è l’unico fattore scatenante, tuttavia è incredibile che la stessa guerra sia un meccanismo ecologico e per questo va regolata ritualmente. Così pure l’aumento dei maiali è regolato dal "kaiko", uno strumento rituale per eliminare il surplus parassitario degli animali. Le "relazioni ostili" o "ciclo rituale del nemico" hanno fasi ben precise. Innanzitutto lo scontro piccolo (bamp acimp ) o scontro niente (ura auere), il quale tenta di risolvere una controversia prima di passare a un combattimento più letale. Se non si risolve la disputa vi è un’escalation con invettive reciproche. Il secondo stadio del combattimento è il combattimento con l’ascia (ura kanuai) preparato da complicati rituali come lo sradicamento del cespuglio "rumbin", l’appendimento delle "pietre da combattimento", l’accensione dell’albero "kavit" da parte dell’uomo della magia, l’uccisione di due maiali per offrirli agli spiriti, l’indicazione dei nemici da uccidere tramite la donna del fumo, la piantagione di due rumbim nel recinto dove sono radunati i guerrieri. Il combattimento con l’ascia avviene con i guerrieri disposti su file con enormi scudi di difesa. Dopo la morte di qualcuno il combattimento veniva interrotto: i parenti facevano il rito funebre, gli uccisori facevano riti per proteggersi dagli spiriti della vittima. Il terzo stadio è la conclusione del combattimento con l’abbandono degli sconfitti del loro territorio o addirittura con la dispersione del gruppo. Il quarto stadio è il rituale della tregua con l’uccisione del maiale e la piantagione del rubim . Il meccanismo omeostatico del rituale è evidente. Ciò che importa non è la difesa a oltranza della popolazione indipendentemente dai costi ambientali come penseremmo noi. La vita umana è in relazione con l’equilibrio ecologico. Vita e morte si scambiano in un tutto regolato che è implicato nella sua totalità. La vita solo parzialmente è un diritto naturale, individuale inalienabile. Prima della vita dell’individuo c’è l’equilibrio della società e del sistema. Le stesse emozioni individuali, come pace e odio, sono regolamentate ritualmente in funzione del tutto. "L’adempimento del kaiko, scrive Rappaport, consente alle popolazioni locali di dare nuovamente inizio ad azioni di guerra. Le ostilità invece sono interrotte col rituale della piantagione del rumbim, che impedisce la ripresa della guerra fino a quando lo stato dell’ecosistema locale permette di bandire e di portare a termine un nuovo kaiko". Ogni emozione è legata al tutto, come la mente al corpo, ogni valore, anche quello della vita e della società, è relativo all’ecosistema ed è il rito a presiedere culturalmente questa decisiva incombenza. Ovviamente temi discussi e laceranti, come la regolamentazione della popolazione nel mondo e il rapporto tra individuo e società, troverebbero una differente soluzione rispetto al rigido antropocentrismo dominante. Sicuramente l’esempio degli Tsembaga ci offre un quadro stimolante per ripensare alla condensazione simbolica del rito che connette molti livelli vitali e per articolare i rapporti tra individuo, società ed ambiente. La socialità sembra nell’ordine ecologico dell’equilibrio del sistema, non nell’ordine dell’accrescimento incontrollato dei bisogni individuali sotto la spinta dell’economia senza attenzioni all’ambiente. In qualche modo nell’organizzazione ecologica si assiste ad un ampliamento dello stesso ambito sociale non più dominato dai rapporti individuo-gruppo e dai giochi di faccia per preservare l’identità, ma da rapporti più estesi che comprendono l’ambiente naturale e gli altri viventi. Ritorneremo in seguito sull’argomento. Intanto intendiamo approfondire il rapporto tra rito e società nelle pagine di V.Turner, il quale ha insistito su due grandi temi: il rito opera il passaggio dall’essere individuale senza status all’essere sociale pienamente riconosciuto dal gruppo; inoltre ha evidenziato che il rito è l’istituzionalizzazione del cambiamento. I riti, nella versione di Turner, sono riducibili a riti di passaggio caratterizzati da tre fasi: separazione, limen, riaggregazione. Nel limen il novizio è strutturalmente invisibile, è spogliato degli attributi esterni della sua posizione strutturale, è posto fuori dalla vita sociale, confinato e isolato, senza riguardo per il suo status pre-rituale. Nella liminalità emerge la communitas, che è una condizione di estraneità permanente, dove outsiders e marginali si mettono o sono messi fuori dalla struttura. Ovviamente fra liminali rituali e marginali permanenti vi sono diversità consistenti in quanto i primi si muovono simbolicamente verso uno status più elevato, i secondi invece soffrono di un’inferiorità strutturale. I rapporti fra liminalità, comunità, marginalità e struttura sono importantissimi perché permettono ad un corpo sociale di rigenerarsi, di drenare i conflitti e le incomprensioni. La communitas è una protesta contro l’istituzione, è opposta a struttura. Gli uomini hanno un reale bisogno di togliersi di tanto in tanto la maschera, il velo, gli ornamenti e le insegne del proprio stato anche soltanto per indossare le maschere liberatorie della mascherata liminale. Oggi come nel passato vi sono movimenti religiosi o di protesta come millenaristi, "no globals" che tentano di eliminare le linee di separazione strutturale per un allargamento della communitas contro le discriminazioni delle istituzioni. La liminalità rituale, analogamente alla marginalità dei movimenti antistrutturali, tenta di regolare il rapporto tra carisma e istituzione. Il rito è il meccanismo della regolata sovversione, del permanente passaggio liminale dalla struttura all’antistruttura, dall’istituzione al carisma.
Il problema tra individuo e società ha conosciuto in questi decenni un percorso travagliato e oggi è ancora sulla soglia di un’altra rivoluzione. Il carattere saliente della post-modernità, secondo Zygmunt Bauman, è la libertà individuale per la ricerca del piacere, anche a scapito della sicurezza . Contrariamente all’epoca moderna, che rinunciava alla libertà per la sicurezza, la post-modernità si è ubriacata di libertà, aumentando l’incertezza perché non ha calcolato efficacemente costi e benefici. La tentazione a cui non ha resistito è di gustare a pieno il piacere di scegliere senza la paura di pagare le conseguenze di una scelta errata; la tentazione di una libertà finalmente priva di angosce. Invece le conseguenze negative sono numerose e fatali, come la divisone sempre più profonda tra ricchi e poveri. E’ sorprendente nella sottile analisi di Bauman il silenzio sul danno ecologico in seguito al mito della libertà individuale. L’autore sembra sempre ad un passo per introdurre l’argomento e invece lo sottace perché non lo ha ancora metabolizzato.


3. Ecologia e socialità
La crisi epistemologica ed antropologica prodotta dall’ecologia deriva dalla rinnovata coscienza del pericolo del degrado ambientale, che rischia di travolgere l’uomo nel suo sviluppo. Se si vuole la coscienza ecologica nasce dalla paura dell’individuo di venir menomato nella sua libertà e quindi ha una sensibilità post-moderna, ma rapidamente è costretta a rivedere i propri presupposti. Primo tra tutti l’antropocentrismo cristiano-occidentale, che sembrava la connotazione più universale della nostra civiltà. La percezione che siamo corpo e che il corpo non si limita al soma ma comprende tutto il creato, ha prodotto una svolta verso un antropocentrismo debole, in armonia compatibile con il sistema terra. Che ne è della società in questa prospettiva? La socializzazione e la società vede ampliarsi i confini oltre l’umano in un equilibrio omeostatico in cui il tema della nostra sopravvivenza deve essere declinato con la sopravvivenza del cosmo. La nuova socialità riguarda gli altri uomini, l’ambiente geografico, i viventi, l’atmosfera, i pianeti e le galassie. Su questo asse portante della rivoluzione ecologica trova un nuovo impulso il tema postmoderno della libertà individuale tutta tesa a realizzare un’economia della sensazione per sfuggire all’incertezza di un mondo instabile e caotico. Nel quadro ecologico si opera una distinzione tra individuo e persona. Un individuo è definito da ciò che lo distingue dagli altri individui; una persona è definita dal rapporto con gli altri. Noi nasciamo individui, sostiene David Steindl-Rast, ma il nostro compito è diventare persone, attraverso relazioni più profonde e intrecciate, più altamente sviluppate. Non esistono limiti al diventare più autenticamente persona. Quindi la sfida alla nostra libertà sarebbe personalizzare l’universo. Prima del nostro arrivo il mondo non sarebbe ancora personale. Adamo trova nel Giardino un ambiente impersonale, ma ora è in grado di renderlo personale. Il suo assegnare nomi agli animali è uno degli aspetti di questa attività personalizzante. F.Capra incalza su questo versante citando la tradizione degli indiani d’America, che non solo danno un nome ma un grado di parentela ad ogni essere vivente. Ne viene un principio psico-sociale di grande rilevanza: la mia crescita personale non deve ostacolare la tua, al contrario la deve rafforzare. Al contrario dell’idea politica convenzionale di libertà come spazio personale che crescendo diminuisce quello degli altri, la visione sistemica porta al reciproco rafforzamento.
La svolta operata dalla relativizzazione dell’individuo a favore della persona in relazione opera tanti livelli personificati, di cui il più vistoso riguarda la relazione tra vita e morte. La finitezza e la morte espongono l’individuo su un orlo ingovernabile dalla tecnica e dai meccanismi di autoimmunizzazione e lo invitano a fare i conti con questa alterità sovvertitrice. Così il tema dell’altro acquista contorni non solo sociologici o di psicologia di gruppo e si amplifica nella relazione col mondo e con tutto ciò che ci sfugge senza creare panico. In questa relazione gioca un ruolo decisivo il rito, che è sempre iniziatico ad un'altra vita, cioè produce uno scarto su un altro ordine di realtà, fa passare da un gioco linguistico all’altro, fa morire ad un mondo per aprirne un altro. Il rito è il meccanismo fondamentale del cambiamento e dell’equilibrio omeostatico fra livelli differenti e confliggenti. Ti permette di sentirti estraneo a casa tua e familiare con gli altri, stabilendo metodici aggiustamenti per non scoppiare di fronte ai continui traumi che attentano all’integrità dell’individuo.
La sua modalità di sconnessura simbolica dei diversi sistemi mette insieme ordini di realtà diversi e li manomette introducendo elementi allarmanti che producono un salto rituale nel senso della vita (C.Geertz). Il rito è al servizio della vita mai definitivamente acchiappata perché è il linguaggio del Sacro. Il Sacro, nella fastosa definizione di G.Bataille, è questa agitazione prodigiosa della vita che, per durare, l’ordine delle cose incatena e che l’incatenamento tramuta in scatenamento, ossia in violenza. Su questo aspetto di violazione del rito per accedere al Sacro si consumano molti malintesi. Questo sacro fuoco del rito, che brucia il legno è la ricerca dell’intimità, della sovranità perduta o mai attinta. Il sacrificio è l’atto umano di separazione dal triviale per accedere alla sovranità della vita, alla totalità dell’esperienza umana. La sovranità, sostiene Bataille, designa il movimento di violenza libera e interiormente angosciosa che anima la totalità, che si risolve in lacrime, in estasi e in scoppi di risa, che rivela l’impossibile nel riso, nell’estasi o nelle lacrime. Ma l’impossibile così rivelato non è più una situazione franante, è la sovrana coscienza di sé che, precisamente, non si allontana più da sé. Potremmo forse essenzializzare la prospettiva ecologica del rito leggendolo appunto come sacrificio, come manomissione talora violenta dell’ordine del mondo per instaurare un ordine più originario, un ordine sacro, un ordine della alterità. Il rito nell’ecosofia scardina la logica tecnica dell’utile e instaura il dominio della sovranità, dove non regna più l’utile per sopravvivere ma il dono come gratuità. L’uomo che vive per l’utile, per il lavoro, introduce, secondo Bataille, la divisione tra soggetto e oggetto, tra dentro e fuori. La ricerca dell’utile è per vincere l’angoscia della morte. Nell’istante della morte scompare la solida realtà che immaginiamo di possedere. Non esiste più che una presenza insieme pesante e sfuggente, violenta e inesorabile? Quando abbiamo il senso di questa forza straziante, non rimangono in noi che sentimenti di grande intensità. Gli interessi semplici verso le piccole cose, i piccoli giochi che riempiono la futilità di una giornata non hanno più senso: un vento impetuoso li trascina via. In questo momento tutta l’esistenza è severamente giudicata e messa a nudo: il più volgare degli uomini è dannato alla grandezza. Ciascuno di noi è allora scacciato dalla ristrettezza dei suoi simili. Proprio per questo è necessario alla vita comunitaria tenersi ad altezza di morte? . Il rito nella teologia ecologica tiene la vita comunitaria ad altezza di morte.
Nel rito, nella festa morte e vita si scambiano simbolicamente producendo quel differenziale in cui l’uomo percepisce l’atto di libertà arrischiato di fronte alla differenza. L’irrisolvibilità della vita senza la morte non porta solo al dramma antico della ricerca dell’albero della vita come via di fuga, come uscita di sicurezza ad un destino ingannevole, ma potrebbe portare anche al riconciliato passo di danza che scandisce l’inno alla Terra. Il rito si rivela meccanismo omeostatico perché capace di tenere le tensioni, le variazioni, le lacerazioni, la violenza della natura senza che il sistema esploda, anzi permettendo al sistema uomo nel creato di accettare la propria morte come pulsazione della vita. Il rito mantiene i diversi livelli biologico, sociale, individuale, religioso, separati e comunicanti, confliggenti e sinergici. E’ il rito che impedisce le facili soluzioni di un livello nell’altro. Trattiene il sociale dal fagocitare l’individuale e viceversa, resiste alla tentazione di risolvere la finitezza e la morte biologica nella risurrezione, inibisce un’irenica utopia non violenta verso le creature e ripropone la violazione del mondo come atto sacrilego di uccisione vittimaria. Il rito è il duro no a una riconciliazione del mondo dettata dall’equilibrismo per mantenere un ordine stabilito e per risolvere l’enigma della differenza in un’identità rassicurante. Il rito mette ordine al disordine incombente non perché è portatore di una misura, di un canone cosmico sempre identico dalla fondazione del mondo, ma perché nell’atto di violazione da esso stesso perpetrato ristabilisce di volta in volta una misura di riequilibrio del sistema. Così il rito interfaccia disordine ed ordine, è causa di destabilizzazione per aprire nuovi orizzonti, non ultimi quelli religiosi, e contemporaneamente ristabilisce una misura paradigmatica che dà la sensazione della stabilità e dell’equilibrio sacrale del mondo. Il rito non ha paura della violenza, esso è essenzialmente sacrificio, profanazione. Solo il rito può profanare le leggi più inviolabili, anche i tabù dell’incesto e dell’omofagia. E per questo che è pericoloso, e deve essere tabuizzato, saldamente isolato dal resto della vita sia spazialmente nei luoghi sacri, sia temporalmente nei giorni festivi. La madre che si ciba del figlio, scrive Jan Kott, è il capovolgimento del parto e dell’allattamento; è la negazione della successione, poiché è il re figlio che viene mangiato; è la negazione del tempo, poiché è un ritorno al punto da cui tutto è cominciato. Il figlicidio, che è insieme regicidio e deicidio, è l’estremo completamento del ciclo. Il cosmo è ridiventato caos perché tutto possa ricominciare. Il rito può essere celebrato solo dagli iniziati, la sua pericolosità deve sottrarlo ad occhi curiosi incapaci di reggere la sua logica. Ogni rito è sacrificale perché è profanatore, perché simbolicamente uccide l’ovvietà del mondo per aprire nuovi orizzonti. Il principio del sacrificio, è ancora G.Bataille che scrive, è la distruzione... non l’annientamento. E’ la cosa - solo la cosa - che il sacrificio vuole distruggere nella vittima. Il sacrificio distrugge il legame di subordinazione reali di un oggetto, strappa la vittima al mondo dell’utilità e la rende a quella del capriccio inintelligibile. Potremmo dire che il sacrificio passa dal mondo delle finalità calcolate, al mondo del gioco, del mito del Briccone divino, dell’inconcludenza cosmica di Qoélet. L’animale offerto passa dal mondo delle cose al mondo dell’intimità del mondo divino, dell’immanenza profonda di tutto ciò che é. La violazione fino alla morte non è proprio necessaria, è necessario lo strappo perché appaia un diverso ordine di realtà . Il rito mette a morte il mondo perché appaia l’ordine sacro. Per questo il sacrificio può non essere cruento: sacrificare non è uccidere, ma abbandonare e donare. Il rito rappresenta il fenomeno umano dello sconvolgimento del mondo senza spargimento di sangue, attraverso la danza, la musica, il canto, la festa, la maschera. Anche il sacro, sostiene Jean Kott, ha la sua tecnologia. Il Sacro a cui il rito introduce è pericoloso, sconvolge la vita. Chi vi si avvicina deve essere avvertito che niente potrebbe rimanere come prima, che c’è il rischio di non tornare più indietro, che si potrebbe rimanere azzoppati tutta la vita come successe a Giacobbe lottando con l’Angelo nello spazio di una notte. Il sacrificio è all’origine della socialità perché destabilizza l’io e lo espone al rischio dell’alterità. Le caratteristiche del rito, ossia la canonicità e la violazione, possono tradursi in un principio psicologico, che, secondo il prof.Gius, presiede la sanità mentale della persona: non possiamo cambiare, non possiamo non cambiare. L’io, che vorrebbe mantenere l’entropia del sistema senza scarti, senza lacerazioni, senza dolori, viene violato nell’atto rituale e si trova in balia della novità, dell’alterità, della morte. Solo a questo livello l’uomo può ancora considerare la vita umana come un’esperienza da condurre il più lontano possibile (G.Bataille).
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