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L'amore cristiano tra identità e differenza

L'AMORE CRISTIANO TRA IDENTITA' E DIFFERENZA.

Premessa
Il tema cristiano dell'amore (agape) può essere considerato centrale per sviluppare l'attuale dibattito del rapporto tra identità e differenza. Ricordiamo i saggi di Luigi Ruggiu su Parmenide, di Giovanni Reale su Platone, di Werner Beierwaltes sui neoplatonici Proclo e Plotino; ricordiamo l'ermeneutica della differenza in Heidegger e in J.Derrida; ricordiamo il tema della prossimità in E. Lévinas, del "dissidio" in J.-F.Lyotard, e il tema della passività e della debolezza attraverso l'esperienza dell'altro nell'ultimo Ricoeur. Vi è un grande fervore di studi sull'irriducibilità dell'altro e sull'uscita dalla filosofia del soggetto. K.O.Apel propone un Gespraech (dialogo) nel quadro del "gioco linguistico trascendentale della comunità illimitata della comunicazione"; J.Habermas sostiene che il nuovo paradigma della modernità è l'"agire comunicativo", cioè l'intesa intersoggettiva di individui socializzati comunicativamente e reciprocamente riconoscentisi. La critica alla filosofia del soggetto sembra non avere via d'uscita se non nella ragione comunicativa.

La modernità non ha perduto la sua ispirazione, anzi nell'agire comunicativo realizza una razionalità decentrata più radicale. La critica al "logocentrismo" occidentale non diagnostica un troppo, bensì un troppo poco di ragione. "Invece di surclassare la modernità essa riprende il controdiscorso immanente alla modernità e lo trae fuori dalla contrapposizione frontale senza vie d'uscita fra Hegel e Nietzsche. Questa critica rinuncia alla esuberante originalità di un ritorno agli inizi arcaici; essa scatena la forza sovversiva del pensiero moderno stesso contro il paradigma della filosofia della coscienza applicato da Descartes fino a Kant" (J.Habermas).

L'importanza del tema non è solo d'ordine teoretico ed epistemologico, ma esistentivo; probabilmente è stato scatenato dalla violenza dei rapporti sociali e dai conflitti etnico-religiosi esplosi dopo la fine della guerra fredda.

Il rapporto tra violenza e soppressione dell'alterità è un tema classico rinvenibile nel mito di Dioniso. Secondo René Girard il baccanale perpetua un aspetto essenziale della crisi sacrificale, cioè l'annullamento delle differenze. Una prima abolizione è a livello sessuale: le donne si volgono verso le attività più violente degli uomini, guerra e caccia; gli uomini si lasciano andare alla mollezza. Vi è una perdita della differenza anche tra uomini e bestie: Penteo delirante attacca un toro nella sua stalla credendolo Dioniso stesso; Agave scambia Penteo per un giovane leone e lo ferisce. Un secondo ordine di differenze soppresse riguarda la distanza tra Dio e l'uomo, tra Dioniso e Penteo. "Ciascuno pretende di raddrizzare da solo la situazione ma nessuno vi riesce: lo stesso deperimento della trascendenza fa sì che non vi sia più la minima differenza tra il desiderio di salvare la città e l'ambizione più smisurata, tra la pietà più sincera e il desiderio di divinizzarsi. Ciascuno vede nell'impresa rivale il frutto di un desiderio sacrilego. E' in quel momento che sparisce qualsiasi differenza tra Dioniso e Penteo".

La violenza si scatena per la soppressione della differenza dell'alterità e questo riguarda non solo gli atei, che sopprimono la sporgenza divina, ma anche i credenti. Ogni qualvolta i credenti in nome della propria fede, della propria interpretazione del mondo, ritengono sacrilega l'impresa o la posizione degli altri si scatena la violenza. Anche il cristianesimo ha vissuto drammaticamente questa situazione. In nome dell'amore è arrivato a sopprimere l'altro. Davanti agli occhi viene l'immagine plastica del confessore che porge il crocifisso all'eretico condannato a morte dall'inquisizione, cioè dai seguaci di quel crocifisso che dovrebbe salvare il reprobo. Tentiamo di descrivere questa vicenda ecclesiale per poi reperire uno spazio teologico meno compromesso col meccanismo della vittima sacrificale.

1. L'amore cristiano tra intolleranza e dialogo.

Vi porto la testimonianza di Padre Aiban Wagua sul tema del quinto anniversario della scoperta dell'America in modo che narrativamente possiamo capirci.

"Sono un Kuna, un cattolico un prete. I miei 47 anni possono essere letti come un compendio di tutto quello che il quinto centenario rappresenta per noi Indios: un processo di morte ed uno di recupero della propria identità.

Per me il processo di morte cominciò con l'entrata in seminario. Fui costretto ad abbandonare tutto quello che costituiva il mio essere indio e negare le tradizioni dei miei padri. L'istituzione in cui ero entrato mi diceva che quanto più velocemente fossi riuscito a sembrare un "bianco", tanto più in fretta sarei giunto alla meta. Era - ed ancora è - questo il denominatore comune dei criteri seguiti per fare di un indio un prete. Lo stesso è vero per molti afro-americani che entrano in seminario.

Furono tremendi i disagi che avvertii. Avevo lasciato una comunità indigena, guidata da chiari valori - quali solidarietà, comunione, attenzione all'altro, intimo rapporto con la natura, importanza del lavoro - ed ero finito in un'istituzione che rendeva la vita facile, borghese, basata per lo più sull'individualismo, ma soprattutto tale da sradicarmi dalla mia famiglia d'origine. Mi offrirono valori che mai avrei considerato tali, ma facevano parte della loro cultura, e io dovetti assumerli come miei. Il risultato fu una tragica spaccatura del mio intimo. La sensazione di squilibrio che provai fu indescrivibile.

A rendere le cose ancor più difficili, c'erano i giudizi e i pregiudizi di coloro che ancora guardano all'indio come ad una persona anomala. Come pure i costanti dubbi sulla mia capacità di osservare il celibato e sull'esistenza in me di una reale facoltà di distinguere il bene e il male.

Soffrii insomma di quello squilibrio di cui è vittima ogni indio, anche colui che dice di non esserne affetto. Ad un certo punto, però, non è più possibile mentire a se stessi, specialmente quando la vita ti trascina in situazioni che, inevitabilmente, ti obbligano a toglierti la maschera. Allora, se ne hai il coraggio, devi intraprendere un difficile percorso a ritroso. E' quanto ho dovuto fare io, quando, ordinato prete, mi mandarono al mio popolo. Eravamo su due pianeti diversi, parlavamo linguaggi che non ci consentivano di comunicare. Non riuscivo ad essere autenticamente Kuna e prete cattolico. questo faceva male a me e al mio popolo.

Per superare quella terribile crisi interiore, dovetti sottopormi ad un secondo processo di morte, più lungo e difficile del primo. Un processo graduale, che ancora continua, nella misura in cui cerco, con tutta onestà, di rientrare in contatto con coloro che conoscono in profondità la cultura del mio popolo. Poco alla volta, sto recuperando quanto ho perduto. Oggi, credo di poter dire di trovarmi in questo periodo di "ritrovamento" di me stesso, della mia vera identità.

Mentre chiedo a Dio di aiutarmi a passare attraverso questa "seconda morte", lo prego perché la Chiesa e soprattutto l'Indio diventino sempre più consapevoli che la "prima morte" - quella che obbliga l'"altro" a negare se stesso - è assurda e va evitata. Gli Indios attendono una buona notizia, che produca vita, non disintegrazione".

A mio parere siamo di fronte ad una testimonianza eccezionalmente lucida, che ci fa comprendere i limiti della nostra carità cristiana. In nome della verità del Vangelo e della carità, noi distruggiamo l'altro, non lo lasciamo esistere. Quando i nostri padri sono andati ad evangelizzare si chiedevano se in nome della verità del Vangelo fosse legittimo fare violenza su quelli che ignorano la Rivelazione. Per "amore" della verità rischiamo di occultare le differenze, invece la carità è il riconoscimento dell'alterità. Quando andiamo all'"altro" non andiamo al povero: dobbiamo smetterla di pensare che l'altro sia il povero. Soggiace sempre l'idea che io sono ricco. L'ormai famosa "scelta preferenziale dei poveri" è un esercizio retorico contro la carità, perché fa capire all'"altro" che egli è niente rispetto a te che hai qualcosa.

Sempre questo prete kuna afferma: "Si è parlato molto delle assemblee generali dell'episcopato latino-americano di Medellìn e di Puebla. Sono state definite "svolte storiche" per la chiesa del nostro continente. Cosa hanno fatto di tanto rivoluzionario? Hanno fatto "l'opzione per i poveri" e noi indios ci siamo collocati in una nuova classe sociale: "i più poveri tra i poveri, quindi i meno fortunati". "Più" e "meno" rispetto a chi? Naturalmente sempre rispetto a popoli diversi da noi. Lo scopo è ancora di farci simili ad essi. Ed allora ci costruiscono scuole per istruirci alla loro cultura. Ci dicono che possiamo costruire le nostre chiese, ma per celebrarvi riti che non capiamo.

Cinque secoli di negazione di noi come "altri" ci hanno resi sospettosi addirittura di coloro che oggi parlano di "inculturazione", di incarnazione del cristianesimo nelle nostre culture. Non sarà anche questo un più raffinato progetto per assimilarci e dominarci? Prima di essere assistiti ed amati come poveri, vogliamo essere visti ed accettati come "altri". Fino a quando la Chiesa non sarà disposta a dialogare con noi - così come siamo - e con il nostro mondo - così com'è - e a fare l'opzione per l'"altro", non riuscirà mai ad appartenerci. Lotterà per noi con maggior forza. Ci saranno ancora missionari che moriranno per difenderci. Noi però saremo sempre considerati gente che è "rimasta indietro" nella corsa - unica ed uniforme - dell'umanità".

E' questo l'agape di Dio? Fino a quando la Chiesa persiste nell'atteggiamento intollerante e non si sforzerà di fare l'opzione per l'altro e non per i poveri rischierà sempre di prevaricare occultando l'agape di Dio. L'opzione per l'altro ti mette nella condizione non più' di "chi possiede pienamente la verità" ma di chi é posseduto dalla verità. Il rispetto per l'altro al possesso della verità sostituisce la traccia, la segnatura, per cui tu percepisci qualcosa della verità ma la vivi nella tua ambiguità tantoché l'altro può dirti qualcosa che può metterti ancora in ricerca con tutti gli uomini. Altrimenti ci sarà sempre chi in nome dell'amore schiavizza l'altro, in nome della verità pensa di essere il garante dell'amore di Dio.

L'attentato alla diversità si consuma anche all'interno della Chiesa dove vi sono teologi inquisiti e condannati per le loro tesi teologiche. E' pur vero che la Chiesa deve garantire l'ortodossia, ma si tratta di stabilire se le procedure adottate dal Magistero siano trasparenti e idonee all'acquisizione di dati sufficienti a stabilire l'eresia, cioè la divisione da Cristo. Su questo fronte forse la chiesa deve imparare non solo per le tremende sviste patite lungo la storia, ma soprattutto per una mutata e maturata sensibilità in ordine alla verità. Eugen Drewermann in "Protocollo di una condanna" rende pubblico il suo dissenso verso la gerarchia ecclesiastica e tra l'altro scrive: "Chi propriamente dà alle sentinelle di Sion e agli informatori dei controllori ecclesiastici l'incredibile diritto di sentirsi con certezza dalla parte della ragione nell'indiziare uno di incredulità e volerlo per forza convincere di eresia solo per il fatto che egli si rifiuta di usare modalità espressive di un'istituzionalità che non incontra come forma espressiva quanto vi è di più personale per tutti, del proprio rapporto con Dio?". E rammentando i terribili incidenti storici come Galileo, come Giordano Bruno rimette in questione quell'investimento dall'alto del Magistero ecclesiastico, che solo a stento riconosce dopo secoli i suoi errori. "Ora proibire e spingere via i problemi, nel mentre, come nel sec. XVI, al posto di indagare i fatti, si crede di poter decretare su di essi a partire dalla fede, questo trasforma gli uomini in cretini concettualmente, i teologi in mandarini specializzati e, alla fine, pure il buon Dio in una marionetta del teatro barocco ecclesiastico. Questo non è credere, ma una messa in scena di superstizioni che ha dalla sua un unico argomento: l'angoscia davanti alla potenza di un magistero che si erge a divino e che però si contraddice per il fatto che nel suo parlare su Dio ha contro di sé tutto quello che è umano - e quindi in realtà anche ciò che proviene da Dio". E' l'impossibilità di comprendersi anche all'interno della Chiesa il vero dramma di sempre. Di fronte all'istanza "altra", che merita ascolto e attenzione c'è talvolta un arroccamento cieco alle formule tradizionali. In nome della Verità non si corre il rischio di rinunciare alle proprie verità parziali, ma semplicemente si fanno prevalere come incontrovertibili. Tutto questo sarebbe possibile se la Chiesa avesse la verità pienamente, ma anche il Concilio ha avvertito che c'è uno scarto tra Cristo e la Chiesa, e non si possono semplicemente identificare.

Il Concilio Vaticano II ha infatti determinato la vera svolta ecclesiologica proprio su questo punto, quando in Lumen Gentium dice che la verità del Vangelo " subsistit in ecclesia catholica" (LG n.8). Ciò significa che c'è la Verità del Vangelo però è escatologica e anche la Chiesa si deve mettere in ginocchio, camminare giorno per giorno nella conversione. Ma possiamo chiederci: c'è uno spazio teologico esplicito che permetta di leggere l'amore di Dio come rispettoso dell'altro?

 

2. L'amore cristiano come estroversione trinitaria.

 Già il paradigma teologico veterotestamentario concepisce il rapporto tra Dio e l'uomo in termini di alleanza. Dalla creazione dell'uomo fatto a immagine di Dio, alla chiamata di Abramo fino all'alleanza Sinaitica si trova che il rapporto tra Dio e l'uomo è un rapporto di libertà, in cui ognuno dei partners mantiene il suo grado di autonomia e il suo spazio di manovra. La storia della salvezza, compreso il Nuovo Testamento, è una vicenda di innamoramenti e di appuntamenti mancati, dove ognuno dei contraenti si mostra sorprendente per l'altro. Non solo Dio appare ingestibile e imprevedibile per l'uomo, anche l'uomo si dimostra ingovernabile e inaffidabile; cosicché la storia sacra è gioco d'amore tra due incorreggibili amanti, che quando sono insieme litigano e quando stanno lontano muoiono dal desiderio di rivedersi. E' il gioco di due alterità irriducibili. Il dramma che talvolta esplode con repentini tradimenti da parte dell'uomo è causato dal timore di essere fagocitato dallo strapotere di Dio. L'uomo non si rassegna di essere il parente povero, vuol essere come Dio per un rapporto almeno alla pari. "Eritis sicut Deum" promette il serpente ad Eva, che è poi la tentazione di sopprimere la differenza, l'Alterità di Dio. E in un altro passo biblico l'uomo soffre di questo strapotere di Dio: "Ci hai consegnato come pecore da macello" si lamenta l'autore del Salmo 44.

Gesù ha vissuto il dramma della doppia appartenenza, in cui l'unità non ha eliminato la differenza. L'inno cristologico della lettera ai Filippesi formalizza concettualmente l'alienazione di Dio nelle sembianze del servo. La Kenosi, ovvero l'abbassamento di Dio è il mistero dell'amore trinitario (Fil 2,6-11). Questa relazione di identità-differenza è stata codificata teologicamente nella dottrina trinitaria, che ha trovato grande sviluppo nel contesto platonico e neoplatonico. Furono soprattutto Mario Vittorino ed Agostino a dare una sistemazione al mistero trinitario. Nell'opera Adversus Arium Vittorino sostiene che la differenza, come coessenziale espressione della propria identità, possa essere pensata e definita anche come identità: in identitate altera esse et eadem. La mediazione della triade in una unità viene ad essere formulata come: altera in identitate, sive eadem in alteritate. L'autodifferenziazione all'interno della autocostruzione dell'intero non "lacera" l'identità, ma la rende un identità riflessiva. L'Uno assoluto, al-di-sopra dell'essere, è diventato "oggetto" a se stesso attraverso al mediazione dell'Uno esistente (del Figlio) e nel vedere-se-stesso (inspectio) rimane unito a se stesso attraverso il legame riflessivo (Spiritus Sanctus). La riflessione neoplatonica sul rapporto tra identità e differenza in una unità trinitariamente differenziata serve da sfondo per la dottrina ortodossa: triplex unitas, unalis trinitas. La creatio ex nihilo per Agostino è l'identità di Dio che pone la differenza.

Nonostante queste promettenti prospettive la Chiesa ha sempre faticato ad accogliere l'Altro, a declinare l'unità con la cattolicità. L'unità è a scapito della cattolicità, la quale viene intesa come assimilazione dell'altro a propria immagine. Lo spirito cristiano dell'Occidente sulla scorta di un neoplatonismo debole, che non ammette contraddizioni nelle emanazioni dall'Uno, non tollera il movimento che moltiplica le forme, preferisce la coerenza alla fecondità. L'unità è associata alla perfezione, la molteplicità alla imperfezione o alla maledizione. In tale mentalità l'Uno è legato al divino, il molteplice al peccato. "Il diavolo è molteplice", diceva un autore del sec. XVI.

Si capisce il motivo dell'enorme successo del mito adamitico dell'unità del linguaggio. La lingua originaria in quanto perfetta e pura doveva necessariamente essere unica. Un solo Dio, un solo uomo, una sola lingua, una sola logica. Lo stato originario è questo. Babele rappresenta la decadenza del peccato perché le parole non sono più speculari alle cose e si assiste alla confusione delle lingue. Si assiste allora nel sec. XVI ad un febbrile lavoro di ricerca della lingua originaria dove la parola è adeguata alla cosa, in una corrispondenza univoca, senza ridondanze di significati.

L'ossessione dell'unità trova profonde lacerazioni nel secolo della scoperta dell'America, della fragilità degli imperi, della pluralità delle lingue nazionali, della divisione nella Chiesa. Giordano Bruno comincia a parlare, tra l'altro, della pluralità dei mondi e viene arso vivo. Dietro alla vacuità semantica delle parole che non corrispondono alle cose si scopre un eccesso di significati, una foresta dei simboli. Oltre al senso letterale, allegorico, anagogico del Medio Evo appare una disseminazione di significati. Troppe cose nascono da una sola cosa e si intravvede un'ambiguità insospettata. U. Eco sostiene che in questa fase il linguaggio esce dall'allegorismo e si apre al simbolico in senso moderno, inteso cioè come "semiosi illimitata". La Parola non è in rapporto univoco con la cosa, ma mentre la traduce la tradisce; essa segna uno scarto, una distanza, che impedisce la perfetta coincidenza. Secondo Gerolamo Cardano la diversità delle lingue è una felix culpa perché mostra la ricchezza dello Spirito. "Si assiste così, nota C.-G. Dubois, a una sorta di nobilitazione del molteplice, che, invece di essere considerato come un segno di degradazione e di corruzione, ritrova il carattere di fecondità che gli attribuiva la Parola di Dio: 'Crescete e moltiplicatevi'. Moltiplicazione non è corruzione, ma fecondità".

Il mondo moderno nasce dalla crisi dell'adamismo col mito di una lingua naturale fondata sull'identità e dall'accettazione della differenza non come corruzione, ma come ricchezza. La Chiesa ha patito non poco per accettare questa svolta di civiltà che ha modificato il suo modo di essere nel mondo. Il Vaticano II è apparso il frutto maturo dell'accettazione di questo processo, sebbene i risultati siano ancora poveri e incoerenti.

 

3. La pastorale della differenza

 L'amore di Dio come unità nella differenza pone grandi problemi a livello ecclesiologico e pastorale. reputiamo che l'ispirazione fondamentale del Concilio Vaticano II sia legata alla riscoperta dell'alterità. Finché la Chiesa ha concepito la sua missione a partire da se stessa non ha potuto concepirsi se non come societas perfecta e il mondo come opposizione. Quando la Chiesa ha cominciato a percepire l'alterità non come minaccia, ma come ricchezza, immediatamente hanno acquistato grande sviluppo i temi della cattolicità, dell'ecumenismo, della libertà religiosa, del dialogo colle religioni e col mondo. La Chiesa ha scoperto di non disporre pienamente della pienezza di Cristo, per cui deve far tesoro di tutti i carismi, di tutte le differenze, di tutti i frammenti di verità disseminati nell'universo. La Chiesa non può più concepirsi in opposizione, ma in dialogo. La sua identità non è statica, ma dinamica; si costruisce in rapporto alla differenza.

Ovviamente tutto questo ha ripercussioni pastorali enormi perché significa che l'identità della Chiesa è legata all'assunzione della differenza sul modello del Figlio dell'uomo che "spogliò se stesso per assumere la condizione di servo". La Chiesa esiste solo in rapporto al modo e questo rapporto è di servizio non inteso come violazione dell'alterità, ma come fecondazione reciproca. Di qui i problemi e i rompicapo per maturare nuovi stili di vita dei credenti chiamati a vivere l'amore di Dio come identità nella differenza. Alcuni quesiti:

- "scelta preferenziale dei poveri" o scelta dell'altro, radicalmente altro fino ad essere nemico?

- "partire dagli ultimi" per portare qualcosa o come esigenza per arricchirsi e ritrovarsi?

- quali sono i confini del dialogo? Come destreggiarsi tra l'etnocentrismo ecclesiale e la perdita della propria identità? Fino a che punto l'altro è signore della mia identità? Come si può stabilire l'identità a partire dall'altro?

- come evitare che nel dialogo l'altro si neghi per compiacermi? Come sopperire alla disidentità dell'altro che si appiattisce sul mio potere culturale o economico? Non trova qui spazio una nuova interpretazione della povertà evangelica?

- come è possibile spogliarsi della propria identità per far posto all'altro? L'empatia e la compassione non sono forse i tratti fondamentali dell'amore in cui il giudizio cede il posto all'approssimarsi come se il tu fosse l'io?

Pur dovendo lavorare in quadro così complesso e pericoloso non possiamo più rinunciare come cristiani alla coscienza cattolica della verità e al valore dell'alterità. Si potrebbe dire con Ermanno Bencivenga che l'io è più umano se diviso. Il soggetto è un universo pluralistico, un teatro nel quale un numero indefinito di personaggi recitano la loro parte confliggendo tra loro e creando sempre nuove prospettive. Questa dimensione plurale del soggetto, questo "io diviso" non è un dramma, neppure se si realizza nel corpo ecclesiale come è avvenuto nei secoli, al contrario è una ricchezza. Fare di noi stessi "il tempio dell'altro", aprirci ad un confronto continuo, è quindi quanto di più naturale, di quanto più rispettoso della nostra stessa umanità possiamo fare. Non lo dobbiamo fare solo per gli altri, lo dobbiamo fare per noi stessi perché la nostra identità è costituita dagli incontri che facciamo. In questo modo si potrà andare "oltre la tolleranza" e trovare il gusto dell'avventura con l'"altro".

Che cos'è l'identità, si chiede Giorgio Girard nella miscellanea "Espressioni del disagio", se non il prodotto di una comunicazione, qualcosa quindi non da sottrarre agli altri ma da salvare perdendola nel gioco delle reciproche influenze. L'incontro rivela "cose non conosciute prima" e "cose che non sapevamo". L'altro è l'anima che riattiva la comunicazione mai interrotta, di cui la nostra interiorità, il nostro fondo introverso è risonanza e riflesso. Mai il sospetto che "gli avversari siano un completamento delle nostre idee"; mai il sospetto che l'identità sia un problema non perché è difficile da salvaguardare, ma "perché nega le altre identità"; mai il sospetto che la comunicazione non sta tanto nelle parole chiare ma nell'intreccio dei linguaggi non pre-codificati perché l'altro, se è davvero tale, non parla il mio linguaggio.

 

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